Easy
Una coppia sposata da tempo che si ama ancora tanto, ma a cui manca qualcosa. Una donna che insegna musica ai bambini, vorrebbe crearsi una famiglia ma non riesce a trovare l’uomo giusto. Due fratelli agli antipodi alle prese con importanti cambiamenti di vita. Un fumettista di mezza età con la carriera in bilico e qualche errore di troppo con cui confrontarsi. Potrebbero essere chiunque: nostri amici, conoscenti, colleghi, passanti che incrociamo al semaforo. Potremmo essere anche noi. In questo caso però sono alcuni dei protagonisti della serie di cui parliamo oggi.
Tante storie, un filo conduttore
Easy è un’originale Netflix in tre stagioni, distribuita dal 2016 al 2019. Si tratta di una serie antologica – per intenderci alla Black Mirror, in cui ogni puntata è a sé – declinata però in maniera un po’ diversa. Non diciamo infatti totalmente addio alla trama orizzontale: mentre alcuni archi narrativi cominciano e si concludono nello spazio di un episodio, altri vengono protratti nel tempo, occupando uno o più episodi a stagione.

Non si può parlare dunque di un unico protagonista, ma di una serie di storie raccontate nel corso di venticinque episodi. Annie, Jeff e Noelle, Annabelle e tutti gli altri sono persone normali alle prese con i problemi della quotidianità: amore (molto), sesso (sicuramente di più), lavoro, il rapporto con gli altri ma anche quello con se stessi. Alcuni di loro si conoscono bene, altri incrociano brevemente le loro strade, altri ancora sono destinati a non incontrarsi mai.
Ma qualcosa accomuna tutti loro, un filo conduttore: Chicago fa da sfondo alle loro vicissitudini. I quartieri residenziali si alternano alle vie del centro e ai locali notturni, le villette a schiera agli appartamenti condivisi, e quella che per alcuni è una città dalle mille opportunità, per altri si trasforma in un posto da cui scappare. Perché sì, anche una metropoli da più di due milioni di abitanti può stare stretta se non è il momento giusto per viverla.
Un po’ di tutto (e di tutti)
Così come le vite reali, anche le storie dei personaggi di Easy sono tutte diverse e mai banali, ricche di sfaccettature. Personalmente ho molto apprezzato il fatto di ritrovare alcuni personaggi, oltre che nella loro storyline principale, anche in quelle di altri personaggi. Sei lì a guardare un episodio, cercando di immergerti in una nuova storia, spunta un personaggio che ha già un non so che di conosciuto e pensi: “tu che ci fai qui?“. È uno stratagemma che permette di affezionarsi maggiormente ai personaggi, di conoscerli sia nel loro privato che come semplici comparse, come fossero gli amici degli amici con cui capiti al tavolino di un bar.
Ognuno di loro è alle prese con la vita e tutto ciò che comporta. Ogni storia ha una propria complessità, uno sviluppo che porta i personaggi a confrontarsi su più livelli con se stessi, con i propri affetti e con il mondo che li circonda. Se cercate una serie stile Shondaland, con il protagonista al centro di una serie infinita di peripezie che dopo le prime tre stagioni cominciano a rasentare l’assurdo, allora siete nel posto sbagliato. Se invece siete alla ricerca di una serie che possa, nella sua semplicità, raccontare la complessità dell’esistenza umana, allora forse Easy è quello che fa per voi.

Vicende incredibili? No, grazie
Di eventi incredibili e plot twist assurdi non c’è traccia. Quello che invece c’è sono le soddisfazioni e le ansie, la voglia di buttarsi e la paura di non farcela, le piccole cose quotidiane che sono percepite da chi le vive come gioie incredibili o ostacoli insormontabili. Ognuno di noi fa i conti con il corso della propria vita e in un certo senso questo porta alla creazione di una sorta di asticella, di termine di paragone positivo o negativo con il quale confrontiamo tutto ciò che ci succede. Ciò che a me sembra il male assoluto, per qualcuno può essere un problema di poco conto o addirittura può non essere un problema affatto. Easy ci porta ad avere a che fare con queste cose, ci mette nei panni di individui diversi da noi e ci porta nel loro mondo.
Fra i tanti personaggi con cui abbiamo a che fare, ci saranno quelli con esperienze, idee, “asticelle” simili alle nostre, e quelli che invece saranno quanto di più lontano possibile da noi. A volte ci troveremo a pensare “ma questo come cazzo ragiona“, altre volte invece noi ci comporteremmo esattamente allo stesso modo. Ma sia che siamo d’accordo con loro, sia che siamo agli antipodi, tutti comunque avranno qualcosa da insegnarci.
E una così grande varietà di storie non poteva che riflettere la varietà del cast scelto per interpretarle. Tanti sono i volti noti del cinema e della serialità che ritroviamo fra i personaggi di Easy, uno fra tutti Orlando Bloom ma anche Dave Franco, Judy Greer o Elizabeth Reaser. Al loro fianco diversi volti più giovani, attori che anche negli anni successivi si sono fatti conoscere per altri ruoli. Da annoverare anche una presenza rilevante di attori comici e cabarettisti, i cui personaggi riescono forse meglio di altri a rappresentare le vicende più paradossali.
La vita vera non annoia
Ammetto di aver trovato questa serie totalmente a caso: non ne avevo mai sentito parlare finché Netflix non me l’ha consigliata subito dopo aver finito Feel Good (miniserie consigliatissima). Credo che Netflix ormai mi abbia profilata piuttosto bene, e per quanto la cosa mi inquieti stavolta mi tocca ringraziarlo. Ammetto anche di aver cominciato la visione solo perché ero alla ricerca di una serie rapida, con episodi brevi da incastrare fra un impegno e l’altro senza dover sempre interrompere sul più bello. Il tema mi ha attirata, gli episodi da 25-30 minuti mi hanno convinta (ce n’è qualcuno un po’ più lungo solo nella terza stagione, quando ormai ero già ampiamente nel loop), la visione mi ha creato dipendenza.

Credo che un ruolo importante sia stato giocato anche da un fattore che sta assumendo per me sempre maggiore peso: la vita reale. Mi spiego meglio. Fin da bambina sono sempre stata molto fan di serie TV e film che in qualche modo mi allontanassero dalla realtà: magia, incantesimi, paranormale, mondi distopici, insomma quegli elementi che ti prendono e ti trasportano in un mondo nuovo. Ultimamente però qualcosa è cambiato, e mi sono messa alla ricerca di titoli sempre più focalizzati sulla “normalità” della vita.
Easy è secondo me la prova del fatto che normale non è sinonimo di banale. Una serie ben fatta non deve avere necessariamente una trama incredibile o un concatenarsi di eventi inaspettati.
La loro esperienza è la nostra
In quanto umani ricerchiamo l’esperienza umana anche in contesti nei quali fatichiamo a immaginarla. Animali parlanti, alieni che hanno nostalgia di casa: nel cinema e nella serialità non facciamo altro che adattare l’esperienza umana ad altri contesti passati, presenti o futuri, più o meno reali o fantastici. Se tutto questo è vero, se siamo così interessati a mettere alla prova l’umanità in contesti diversi, perché allora non fermarci a pensare al modo in cui agiamo nella nostra vita quotidiana?
Cosa farei se mio marito mi dicesse di voler lasciare un lavoro stabile per buttarsi in un progetto fuori da ogni sicurezza (e in parte anche dalla legalità)? Come mi comporterei se non volessi sfigurare con una persona che mi piace tanto ma che mi sembra tanto più interessante di me? Se l’occasione che aspetto da tempo si realizzasse in una città dall’altra parte del Paese, la coglierei? Guardando Easy mi sono posta queste e tante altre domande. E se forse ancora non so come mi comporterei, almeno adesso sono consapevole di come vorrei comportarmi.
Da guardare perché…
Per quanto mi riguarda, Easy è assolutamente una serie da guardare. Il primo motivo è quello su cui ho battuto praticamente per tutto l’articolo: la vita non è banale. Anche le situazioni che possono sembrarci più scontate in realtà alimentano la complessità delle nostre vite normali. Non solo draghi sputafuoco e tecnologie d’avanguardia possono essere interessanti. Motivo numero due: è una serie leggera ma contemporaneamente significativa. Gli episodi brevi permettono una visione rapida e volano lasciandoci con la curiosità di vedere subito quello successivo. Considerando la mancanza di cliffhanger sui finali degli episodi, mi sembra un risultato rilevante.
Tre, anche se in realtà è un motivo fondamentale: l’importanza del parlar chiaro. Quante volte ci è capitato di bloccarci, di non riuscire a dire qualcosa di importante o ad esprimerci nel modo giusto. A volte perché non vogliamo far del male, altre perché non vogliamo farne a noi stessi. Ma se c’è un insegnamento che questa serie porta avanti è che le cose da dire vanno dette, potrebbe non essere una tragedia così grande. It’s Easy!
Articolo di Martina Mastellone