Della crisi dell’editoria si sente parlare ormai da anni. Ogni anno il numero di giornalisti licenziati e di redazioni ridotte aumenta sempre più senza la possibilità di invertire questa rotta. La crisi dei giornali è anche una crisi che nasce dal suo pubblico: un recente sondaggio di Pew Research ha infatti rivelato che il 71% degli intervistati ha sentito il bisogno nell’ultimo periodo di prendersi una pausa dalle notizie. Una crisi che si riversa sulla qualità dell’informazione, fondamentale in una democrazia, e sulla sopravvivenza economica delle redazioni.
Il modello di business del giornalismo
Il vecchio modello di business del giornalismo, prevalentemente fondato sui profitti derivanti dalle inserzioni pubblicitarie, non genera più profitti da molto tempo ormai. Un rinnovamento è l’unica soluzione per la sopravvivenza e il risollevamento da una crisi causata, a detta di molti, da Internet.
La diffusione di Internet, di Google ma soprattutto dei social network come Facebook, ha portato ad un aumento della competizione tra i giornali al fine di catturare l’attenzione dei lettori. Agli albori di Facebook, la diffusione del social network era stata accolta da parte dei giornalisti come una possibilità in più per la diffusione delle proprie news. Molti però hanno dovuto ricredersi. Il modello di business del giornalismo online, che pensava di recuperare le perdite del cartaceo attraverso le inserzioni pubblicitarie, si è mostrato fallimentare.
La crisi è quindi duplice. Non riguarda solo l’aspetto economico quanto piuttosto quello della qualità dell’informazione. Il business dell’advertisement, infatti, si fonda sul raggiungimento del maggior numero di click e views. La funzione principale di un articolo giornalistico non è più di carattere sociale, ma di clickbait. Vale a dire ottenere il maggior numero di click al fine di incassare il maggior numero di rendite pubblicitarie.
Assecondare questo tipo di modello, volto esclusivamente al profitto, ha condotto a quella che viene definita “spettacolarizzazione” dell’informazione. I titoloni sensazionalistici, le notizie spesso poco verificate o quelle con una scarsa utilità sociale (come Trudeau che si fa crescere la barba) hanno proprio questo obiettivo. Il business dell’advertisement non ha funzionato non solo perché le inserzioni pubblicitarie pagano molto meno di quelle sul cartaceo, ma anche per il ruolo da monopolisti di attori come Google e Facebook.
Il ruolo di Google e Facebook
Resta ancora da definire il ruolo dei due colossi nel mondo del giornalismo. Ed è ancora aperto il dibattito riguardo la possibilità di poterli considerare o meno degli editori. Nella realtà dei fatti non pagano dei giornalisti per produrre degli articoli, ma sono loro a decidere quale articolo o testata far apparire nel trend delle ricerche, con un evidente rischio per la competizione.
Esemplare è il caso del Daily Mail, che pochi giorni fa ha presentato una denuncia contro Google. Il tabloid britannico sostiene che il motore di ricerca avrebbe limitato la visibilità dei suoi articoli sul funerale del Principe Filippo, a causa della scelta del giornale di non vedere gli spazi pubblicitari sul proprio sito attraverso Google. Come scrive Luca Sofri nella sua Newsletter sul futuro dei giornali, questo episodio è sintomatico di due problemi: la dipendenza dei giornali da Google nel piazzamento sul motore di ricerca e “la sovrapposizione di ruoli e potere nella gestione delle inserzioni pubblicitarie tra i siti che le ospitano e Google”.
Se la pubblicità rimane l’unica fonte di rendita per i giornali, non basterà a risanare le perdite, dal momento che Google e Facebook guadagnano 90 centesimi per ogni dollaro speso in pubblicità. Ecco perché molti editori hanno provato a chiedere alla politica che i due colossi pagassero per l’utilizzo degli articoli sulle piattaforme. Google e Facebook hanno quindi dato l’avvio a progetti con singole testate, il cui risultato è sicuramente un guadagno economico dei giornali. Ma quali sono le conseguenze per l’autonomia e la qualità dell’informazione?
Verso nuovi modelli di business: la membership
L’errore che più spesso si commette nell’affrontare il dibattito sulla crisi del giornalismo è quello di slegare il crollo valoriale da quello economico. La crisi del mondo dell’editoria è un cane che si morde la coda: è necessario produrre dei contenuti di qualità per ottenere dei ricavi, ma è anche necessario avere dei ricavi da investire in contenuti di qualità. Anche se quest’ultima asserzione è stata in parte scalfita dall’avvento del digitale.
Se si intende perseguire un modello di business fondato sull’advertisement è necessario che i lettori ne siano a conoscenza. Il confine tra pubblicità e giornalismo è diventato negli anni molto labile. Basti pensare agli articoli promozionali di grandi brand commerciali che pagano i giornali affinché questi scrivano articoli sponsorizzati. Fin qui niente di sbagliato. Il problema nasce quando il lettore non sa di trovarsi di fronte a un’inserzione pubblicitaria, a causa della mancata trasparenza del giornale nell’indicare la diversa natura degli articoli. Il New York Times, al contrario, ha imposto la dicitura ‘paid post’ anche nelle condivisioni via social di questo tipo di articoli, incentivando il rapporto di fiducia con i propri lettori.
La maggior parte delle testate giornalistiche, soprattutto quelle che nascono a partire dalla carta stampata, si sostengono esclusivamente sul ricavo pubblicitario. Perché si parte spesso dal presupposto che i lettori non siano disposti a pagare per l’informazione. Ma la soluzione per Jeff Israely è quella di non trattare i lettori come se fossero degli idioti.
È proprio la mancanza di questo rapporto di fiducia, dovuto alla scarsa qualità dei contenuti, che non permette l’abbandono del modello di business fondato sull’advertisement a favore di uno fondato sulla membership.
Spiragli di luce per il giornalismo
Il caso contrario in Italia è quello de Il Post. Il giornale online ha dichiarato che nel 2020 il 40% delle proprie spese è pagato dagli abbonati, chiudendo in attivo di 400 mila euro. “I criteri di accuratezza e rigore” che il Post si è dato, fin dalla sua nascita, sembrano essere considerati preziosi da molti dei suoi lettori. Questa crescita in credibilità e autorevolezza, dice il Post, “è stata riconosciuta anche dagli inserzionisti pubblicitari”, i quali hanno portato un aumento dei ricavi del 21%.

Altri sono i casi di successo. Tutti hanno in comune l’essersi mossi verso modelli di business che fidelizzano il lettore rimettendo al centro la qualità del contenuto.
Articolo di Mara D’Oria