Pensiamo a quante volte abbiamo la necessità di dire un indirizzo: quanti hanno il nome di una donna?
Attenzione a ciò che viene considerato “normale” o “usuale”, perché è lì che si nasconde l’insidia. È il caso delle nostre città, che nei nomi delle loro vie dimenticano l’altro sesso.
L’intitolazione di un luogo è ancora regolamentata da una legge fascista, risalente al 1927 (la n. 1188 del 23 giugno): è possibile dedicare vie e piazze a una persona morta da almeno dieci anni salvo deroga, mentre per il cambiamento di un nome si deve ricorrere al parere della Soprintendenza e del Ministero dell’Interno. Con una delibera comunale, si provvede all’introduzione del toponimo.
In questo modo, a partire dell’epoca risorgimentale, è stato plasmato l’aspetto urbano dell’Italia, che ha subito qualche modifica prima sotto il fascismo e dopo sotto la Repubblica. Non stupisce che nell’intero processo per la menzione delle nostre grandi protagoniste, basti citare il Premio Nobel Grazia Deledda, il Premio Oscar Anna Magnani, la Presidente della Camera Nilde Iotti, non sia stato trovato sufficiente posto. Invece, aleggiano ancora gli echi di un passato orribile: Adua, Addis Abeba, Eritrea, Etiopia, Vittorio Emanuele III…
Da anni, l’associazione Toponomastica Femminile denuncia la situazione e si impegna per cambiare le cose. Ma il vero cambiamento avviene quando tutti ci chiediamo: in che via abitiamo e cosa rappresenta quel nome?
Il Laboratorio di Cultura Digitale dell’Università di Pisa permette di navigare tra i dati toponomastici di campioni di città italiane, di cui sono stati calcolati i cento nomi più frequenti. E sono pochi, troppo pochi.
Facciamoci tutti più caso.
Articolo di Camilla Zucchi