Ormai la parola sostenibilità è all’ordine del giorno. Finalmente, e meno male, aggiungerei. Ma cosa si intende veramente con questo termine? La Treccani ci viene in aiuto: «nelle scienze ambientali ed economiche, condizione di uno sviluppo in grado di assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri». Definizione in linea con il famoso «How dare you?» di Greta. Sì perché, parliamoci chiaro: la crisi climatica is no joke. Il Climate Clock dopotutto sta lì a ricordarcelo.
A volte si può venire sopraffatti dal pensiero «io cosa posso fare in tutto questo?». Provare ad adattarsi alle esigenze ambientali è un buon inizio. La sostenibilità si può applicare ai più svariati campi. Qualsiasi cosa vi venga in mente provate a cercarla su Google aggiungendo la parola “sostenibile”: rimarrete sorpresi dalle alternative ecologiche che abbiamo a disposizione. Però, se la parola che avete in mente è “moda”, allora non dirigetevi immediatamente su Google – continuate a leggere questo articolo prima.
L’impatto ambientale della Fast Fashion
Del concetto di fast fashion se ne è sentito parlare tantissimo negli ultimi anni. Il termine, coniato dal New York Times nel 1989 in occasione dell’apertura del primo negozio Zara nella Grande Mela, sta ad indicare quel modello di moda “veloce” dal punto di vista della produzione e del consumo, proposto da molte grandi catene di abbigliamento (tra cui H&M, Zara, Bershka, Stradivarius, Nike e molte altre). “Fast” nel vero senso della parola: basti pensare che si è passati dalla produzione delle tradizionali due stagioni all’anno, primavera-estate e autunno-inverno, a 52 stagioni annuali. Sì, avete letto bene: 52, una alla settimana. È vero che cambiamo spesso gusti e stile, ma neanche le scale di Harry Potter cambiano così di frequente.
Il vero problema è che la fast fashion fa gola un po’ a tutti, me compresa. Non ci sentiamo in colpa a comprare un capo di bassa qualità perché costa poco e, di conseguenza, non ci facciamo problemi a buttarlo e passare all’acquisto del prossimo. Ma questo ritmo non va d’accordo con la sostenibilità ambientale: l’industria della moda è una tra le più inquinanti al mondo. Basta osservare alcuni dati riportati da una recente ricerca della rivista scientifica Nature: ogni anno vengono consumati 1.500 miliardi di litri d’acqua per la produzione di nuovi capi, il 35% delle microplastiche che si trovano negli oceani è dovuto ai lavaggi dei vestiti in materiali sintetici, e i rifiuti tessili superano i 92 milioni di tonnellate ogni anno. La ricerca mostra inoltre come in Europa, nel periodo 1996-2012, si sia assistito ad un aumento del 40% negli acquisti di abbigliamento. I nostri armadi sono troppo pieni, e ciò è dimostrato anche dal fatto che il numero di volte in cui un capo viene utilizzato è diminuito drasticamente negli ultimi anni: il 36% in meno rispetto al 2005.
Il Greenwashing
La crescente sensibilizzazione pubblica verso i temi ambientali registrata negli ultimi anni è stata percepita anche dalle stesse grandi catene , che hanno cercato di includere tra i loro prodotti linee «eco-green» o «sostenibili». Queste campagne sono però estremamente fuorvianti: il fatto che una grande catena produca una piccolissima percentuale dei propri capi di abbigliamento in maniera sostenibile la rende una catena sostenibile? Come potrete immaginare, la risposta è negativa. Questa strategia di marketing, chiamata “greenwashing”, è attuata da molte aziende di fast fashion. L’intento è quello di costruire attorno a sé un’immagine ingannevolmente positiva sotto il profilo ambientale, per distogliere lo sguardo da quello che l’azienda per la grande maggioranza continua a fare: produrre abbigliamento in maniera non etica sia nei confronti dei lavoratori che nei confronti dell’ambiente.
Slow fashion e certificazioni
Per nostra fortuna, le tendenze sono fatte per essere invertite e il mondo della slow fashion e della moda sostenibile è in grande crescita. Rallentando i ritmi di produzione e di acquisto, si può puntare ad una maggiore qualità dei prodotti, che potranno così godere di una vita più lunga nei nostri armadi. Non è detto però che un marchio di moda con un ritmo di produzione più lento delle grandi catene di fast fashion sia per forza sostenibile, anzi. È essenziale infatti documentarsi sui siti web dei nostri brand preferiti per capire se le politiche di produzione adottate siano etiche ed ecologiche. A renderci il lavoro un po’ più facile sono sicuramente le certificazioni tessili: solitamente vengono riportate nei siti e/o nelle etichette dei brand che garantiscono una produzione a ridotto impatto ambientale e l’uso di tessuti ecologici.

Queste sopra riportate sono quelle più diffuse riguardanti l’ambiente, ma esistono anche certificazioni che assicurano l’eticità della condizione dei lavoratori (altro enorme problema delle catene di fast fashion), e il rispetto del mondo animale. Sicuramente un tema da approfondire, ma intanto su una cosa possiamo essere sicuri: più ne troviamo nei capi che acquistiamo, meglio è.
Dove cercare?
Se a questo punto vi sentite un po’ persi nel mare di etichette e certificazioni, non temete: Il Vestito Verde got your back. Fondato nel 2017 da Francesca Boni, questo grande database di brand ecosostenibili ed etici offre possibilità di scelta per tutti e per tutti i gusti. Sul sito è possibile effettuare una ricerca tra capi made in Italy, biologici, vegani e handmade, tenendo conto della fascia di prezzo più adatta alle nostre necessità. Inoltre, per coloro che prediligono lo shopping fisico all’e-commerce, Il Vestito Verde offre anche una mappa con più di mille negozi fisici di moda sostenibile ed etica in Italia, divisi per categorie.

Il mondo della slow fashion e della moda sostenibile è quindi molto più vasto di quello che possiamo immaginare. Per nostra fortuna, viviamo in un’epoca in cui le piattaforme per la ricerca di informazioni certo non mancano. Su YouTube, ad esempio, il canale di Camilla Mendini è un must per coloro che vogliono approfondire queste tematiche: vi troverete infatti playlist interamente dedicate alla moda ecologica, agli haulternative (variante sostenibile del diffusissimo format degli Haul) e al decluttering dell’armadio. Nel caso vogliate invece informarvi scrollando Instagram, provate a seguire il profilo di Venetia La Manna, attivista londinese per la moda sostenibile e curatrice di «Remember Who Made Them», un podcast dedicato alla sensibilizzazione sulla condizione dei lavoratori nelle fabbriche di abbigliamento. Il sito e la pagina Instagram di Fashion Revolution sono inoltre un altro punto di riferimento per chiunque voglia avvicinarsi a questo mondo.

Il discorso sulla sostenibilità nel campo della moda è ovviamente molto più ampio di quello riportato in questi pochi paragrafi. Il mondo del secondhand e dei capi vintage, per esempio, è un mercato che si sta facendo sempre più strada negli ultimi anni anche in Italia. Ma questo sembra essere materiale per un altro articolo, perciò…stay tuned!
Articolo di Arianna Urgesi