L’idea scientifica di spazio aperto a tutta l’umanità è sempre stata un cavallo di battaglia del soft power americano. Da che mondo è mondo, però, l’egemone cade sempre nella trappola di Tucidide e con l’avvento del multilateralismo questa visione inclusiva dell’esplorazione spaziale sta gradualmente sfumando. Di fatto, mentre la Casa Bianca osserva con preoccupazione la corsa allo spazio delle altre potenze, gli USA si vedono costretti a custodire gelosamente il proprio know how per mantenere un ruolo di primo piano.
L’arrivo di Perseverance su Marte ha ribadito questo primato. La missione rappresenta un successo di matrice occidentale, un qualcosa che ricorda quella famosa bandiera americana piantata sulla Luna il 20 luglio 1969 e che da cinquant’anni ne marchia a pelle la superficie come se fosse di proprietà statunitense. Oggi, a dare del filo da torcere agli USA è la Cina di Xí Jìnpíng, determinata a uscire dalla dottrina del basso profilo per alzare lo sguardo verso la Luna e Marte.

Il progetto spaziale cinese
Pur avendo meno esperienza degli States, Pechino è riuscita a fare in appena vent’anni ciò che Washington aveva fatto in cinquanta. Dopo decenni di alti e bassi – segnati dalla Rivoluzione culturale di Mao e dal decollo economico dei primi anni Ottanta – la Repubblica popolare pone la prima pietra del suo ambizioso programma nel 2003, quando si afferma come il terzo paese ad aver mandato in orbita terrestre un astronauta, Yang Li Wei. L’anno successivo il Politburo delinea una strategia di esplorazione lunare, programma che avrebbe poi dato i suoi frutti quindici anni dopo.
Due sono le missioni più significative. Nel 2019, la sonda Chang’e 4 riesce a raggiungere per la prima volta nella storia il lato oscuro della Luna con il rover Yutu-2. Quest’area non era mai stata esplorata dall’uomo e il fatto che sia stata scelta dai vertici del governo ci fa comprendere come sia in atto un’implicita spartizione del satellite. Il 23 novembre 2020 l’Agenzia spaziale cinese scolpisce un’altra pietra miliare. La sonda Chang’e 5 decolla dal Wenchang Space Launch Center (isola di Hainan) e stabilitasi in orbita rilascia un rover automatizzato, con il compito di prelevare dei campioni minerari. Il 3 dicembre successivo Chang’e 5 torna a Wenchang con il materiale.

Così, mentre gli USA pianificano uno sbarco sulla Luna nel 2024 nell’ambito del Progetto Artemis, la Cina si impegna in un’ardua corsa contro il tempo nel tentativo di tenere il passo. La strategia spaziale cinese prevede tre step, due di breve e uno di lungo periodo: tentativi di allunaggio, prelievo di campioni di rocce lunari (come il pirosseno o l’olivina) e invio di missioni con equipaggio. Il programma cinese raggiungerà il suo zenit con l’installazione di un’infrastruttura di ricerca permanente entro il 2035 nel polo sud del satellite, una vera e propria base lunare. Lo scopo delle prossime missioni sarà perciò quello di tastare il terreno per verificare la presenza di minerali sfruttabili e scoprire se sia effettivamente possibile procurarsi in loco tutto il materiale necessario alla costruzione della base, anche con il supporto di stampanti 3D e approvvigionamenti da Terra.
Il Tiangong
A livello attuale, Pechino dispone di tutte le risorse necessarie per compiere un’impresa del genere. Gli americani questo lo sanno bene e hanno sempre cercato di estromettere il rivale dalla partita. C’è una legge approvata dal Congresso USA nel 2011 che proibisce qualsiasi coinvolgimento della Cina nelle missioni spaziali americane, un dogma pensato per evitare di sbandierare ai quattro venti il proprio know how tecnologico. Ancora prima, nel 2007, gli USA avevano rifiutato la proposta di adesione cinese alla Stazione spaziale internazionale, spingendo il Politburo ad arrangiarsi e costruirsi la propria.
Quest’anno infatti sarà messo in orbita il primo modulo del Tiangong – letteralmente Palazzo celeste – per un totale di sei, nei prossimi tre anni. Del resto, possedere una stazione spaziale è fondamentale. Oltre alle innumerevoli ricerche sullo stato di salute di un individuo in una condizione di microgravità, un’infrastruttura di questo tipo rappresenta un punto d’approdo molto importante. Chi la possiede può ritagliarsi un buon margine logistico per eventuali rifornimenti – specie durante una missione lunare – o per l’assemblaggio di veicoli spaziali di massa maggiore, che altrimenti non potrebbero decollare direttamente da Terra.

Due paesi, due sistemi
Non è un caso che gli Stati Uniti abbiano lanciato Artemis in questo periodo. La NASA ha in mente di costruire un’altra stazione spaziale, questa volta attorno alla Luna. Un progetto ambizioso, facilitato dal privilegiato rapporto che la Casa Bianca gode con le aziende private, in particolare SpaceX. Le imprese private sono molto più convenienti per la logistica. Il governo USA le coinvolge per risparmiare risorse nei lanci e nella creazione di infrastrutture, come i satelliti. Resta da chiedersi quale sarà il ruolo del pubblico in futuro; se vedrà ridurre il proprio margine d’azione oppure se riuscirà comunque a controllare il settore fornendo semplici linee guida di natura strategica.

In Cina, al contrario, il neoliberalismo non ha attecchito. Lo Stato, essendo il più grande player all’interno del suo mercato, controlla anche il settore aerospaziale e l’Agenzia spaziale cinese si muove con più velocità. Si tratta di un paese economicamente florido, che ha resistito all’impatto della pandemia e che spende appena il 35% del budget militare USA (732 miliardi). Miliardi in meno che gli USA possono spendere, miliardi in più per la Cina. Di certo, il governo cinese non avrà gli stessi problemi di Washington. Quando le imprese private occidentali impegnate nel settore assumeranno preminenza nello spacemining, saranno in grado di dettare legge sui governi nazionali. In nome degli stessi interessi che dominavano l’Europa durante l’epoca coloniale e che provocarono la Prima Guerra Mondiale.
L’inizio di un nuovo colonialismo?
“Space today is fundamental to every single military operation that occurs on the planet today” diceva John Hyten, vice Capo di Stato maggiore congiunto degli Stati Uniti. E non a caso. Ormai lo spazio è definito a tutti gli effetti dalla NATO un “dominio operativo”. Oggi, il diritto internazionale contempla i corpi celesti come terre di nessuno, condannandone qualsiasi tentativo di monopolizzazione. Tuttavia, i trattati che sanciscono questi principi sono obsoleti, risalgono agli anni Settanta. Non vi è alcuna regolamentazione che centellini l’attività delle multinazionali private nello sfruttamento delle risorse minerarie. Inoltre, la presenza delle armi satellitari attorno al globo è già di per sé una violazione degli accordi.
Fondamentalmente, la Luna, Marte e tutti gli altri corpi celesti che l’esplorazione spaziale ci ha permesso di toccare con mano non sono altro che terra di nessuno. Chi prima arriva, meglio alloggia. Con il passare degli anni, lo sviluppo tecnologico consentirà al genere umano di raggiungerli con più facilità. Il rischio è che ciò possa innescare innumerevoli rivendicazioni e, dunque, un deterioramento delle relazioni internazionali. Anche perché Cina e Stati Uniti non sono gli unici a muoversi per conquistarsi “un posto al sole”. Ma questa è un’altra storia.
Articolo di Umberto Merlino