Il potere di censura dei social network, come Facebook e Twitter, ha aperto un dibattito destinato a non trovare alcuna risposta, per il momento. Se si incita all’odio e alla violenza, seppur si tratti del Presidente degli Stati Uniti, è giusto che si venga esclusi da queste piattaforme? Il 6 gennaio, dopo l’assalto a Capitol Hill, è successo quello che si temeva da tempo: si è aperto il vaso di Pandora.
Quando Pandora aprì il vaso, spinta dalla curiosità, liberò tutti i mali che c’erano nel mondo. Era impossibile tornare indietro e richiudere nel vaso quello che era stato liberato. La soluzione fu riaprire il vaso e far uscire l’unica cosa che ci era rimasta dentro: la speranza.
Sicuramente nel vaso dei social network non sono nascosti solo i mali; anche le bontà sono venute fuori, e molte altre si nascondono sul fondo. La differenza è tutta nelle conseguenze che un bene o un male producono, per questo ci preoccupiamo più degli ultimi. Il vaso del digitale è stato scoperchiato da tempo, quello che non abbiamo ancora compreso è quale sarà quella speranza che vi porrà rimedio.
La decisione dei social di bloccare Trump
Premettendo che Twitter e Facebook hanno, anche secondo il parere di alcuni giornalisti, agito correttamente quando hanno deciso di bloccare l’account del Presidente degli Stati Uniti, voglio andare ben oltre questo evento specifico. Secondo Beppe Severgnini, che ne scrive sul Corriere della Sera, le ragioni alla base della censura sarebbero tre. Primo, perché Trump “ha violato le regole di ingaggio di Twitter, Facebook & c.”. Secondo, “il Presidente ha incitato all’insurrezione, rifiutando il risultato di elezioni democratiche, e ha creato un grave pericolo”. La terza ragione è che “i social non possono essere tubi vuoti dove passa di tutto. È ora che si sveglino e assumano le proprie responsabilità”.
Se fossi il proprietario di un bar, e uno dei miei clienti aizzasse una rissa, non avrei nessun problema a sbatterlo fuori. Il commento più gettonato degli ultimi giorni è stato: “Facebook e Twitter sono delle piattaforme private”. Ecco il primo errore. È sicuramente vero che lo sono, e come i proprietari di un bar possono bandire chiunque non rispetti i famosi termini e condizioni della piattaforma. Ma le risse nel mio bar non hanno né un impatto sociale, né provocano danni alla democrazia, e nemmeno il Presidente dell’isola di Pasqua si sognerebbe di venirci a bere.
L’impatto pubblico del potere di censura privato
L’errore è stato guardare esclusivamente al caso specifico di Trump. Proviamo ad immaginare per un attimo Trump come imprenditore digitale. Il suo social Trumpbook è popolarissimo e migliaia sono gli utenti iscritti. In quanto proprietario della piattaforma avrebbe il potere di bandire chiunque non ne rispetti i termini, scelti, da lui stesso, in maniera arbitraria. Il potere di censura nelle mani di imprenditori privati entra in contrasto con la loro posizione di proprietari, il cui obiettivo principale rimane il profitto.
Qualcuno ci ha anche provato. Gli avvocati di Facebook hanno creato “un insieme di regole che centinaia di dipendenti possono applicare in modo coerente senza dover effettuare delle valutazioni di merito. I dettagli di queste regole, tuttavia, non li conosciamo. A differenza delle decisioni di censura di agenzie governative, il processo nel mondo privato dei social media rimane segreto”.
I social come giornali?
L’altro errore, che io stessa ho commesso, è paragonare quello che accade sui social ad una situazione del mondo reale. Siamo abituati a interpretare il nuovo con le strutture mentali che abbiamo a disposizione. Il dibattito se considerare le piattaforme al pari degli editori è ancora aperto. Come i giornali, i social network veicolano le informazioni e decidono quali far passare e quali invece censurare.
Tuttavia, nel mondo dell’editoria, il diritto ad essere informati, nel caso italiano sancito all’articolo 21 della Costituzione, è garantito dal pluralismo esterno. Vale a dire che l’alta concorrenza esistente nel mondo dell’editoria, garantisce che venga data voce ad una pluralità di istanze differenti. Il monopolio che caratterizza il mondo dei social, al contrario, non permette l’accesso ad un’informazione più eterogenea, aggravato anche dall’utilizzo degli algoritmi che ci chiudono in una bolla informativa.
Il problema della disinformazione
Censurando Trump, le piattaforme hanno provato a porre rimedio ad un problema che loro stessi avevano creato, quello della disinformazione. Se le fake news sono sempre esistite, la loro rilevanza oggi è dovuta alla facilità con cui queste vengono diffuse, a causa dei famosi algoritmi che ci permettono di accedere più facilmente a quello da cui siamo attratti.
Se migliaia di suprematisti bianchi si sono riuniti a Capitol Hill il 6 gennaio non è solo perché glielo abbia suggerito Trump. La maggior parte, se non tutti, era davvero convinta che le elezioni fossero falsate. Sicuramente un tweet da solo non ha il potere di condizionare le idee, ma forse migliaia di tweet o di post Facebook che dicono la stessa cosa, sì.
La soluzione
Quando sono nate queste piattaforme, ciò che le accomunava era la volontà di garantire la libertà di espressione, relegata fino a poco tempo prima ai giornali. Famoso è Mark Zuckerberg davanti al congresso americano, a cui chiedeva una regolamentazione statale del proprio social. Anche lo stesso
Zuckerberg credeva nell’impossibilità di porre una censura da parte di piattaforme private come la sua. La regolamentazione quindi pare essere ad oggi la soluzione per ripristinare la concorrenza nel mercato dell’informazione.
Ma il 6 gennaio è stato creato un precedente. Twitter e Facebook, sotto la pressione di alcuni utenti hanno provato a colmare il ritardo governativo. Agli Stati non bisogna nemmeno attribuirne la colpa, la portata innovativa di questi mezzi non permette l’applicazione di regole vecchie e rende difficile la stesura di nuove.
Niente è ancora certo. L’unica cosa certa è che la speranza è ancora nel vaso. E se Mark Zuckerberg è la Pandora del XXI secolo, finalmente possiamo sfatare il mito che i mali del mondo siano da attribuire alla curiosità femminile.
Articolo di Mara D’Oria