Che cosa accadrebbe se… tutti quanti perdessimo la vista? Il mondo possibile in Cecità di José Saramago
La mente umana ha una capacità meravigliosa: l’immaginazione. Da sempre l’uomo fantastica su mondi possibili, diversi dal proprio: dalla metafisica degli dei, al celebre trip dantesco; da un secondo pianeta Terra che appare in sogno all’uomo ridicolo del Dostoevskij, al filone cinematografico apocalittico e post-apocalittico che negli anni settanta diventa cult.
Si tratta di mondi altri da noi, in cui lo stato delle cose è sovvertito o deformato. La parola “stato” deriva dal latino status e significa “condizione, posizione, stabilità”. Se ci pensiamo, il fine ultimo del processo creativo è, spesso, proprio quello di destabilizzare. Mondi altri, sì, attraverso i quali alla fine, con una grande giravolta, si indagano tematiche esistenziali di questo e di nessun altro mondo: il nostro. Sulla tela delle infinite possibilità ecco dipinta la figura dell’uomo, nitida o trasparente, in tutta la sua energia di vita e di morte.

E dunque Che cosa accadrebbe se? Si tratta forse di una domanda (a sfondo) es(i)s(t)enziale. Essa permette alla fantasia di galoppare, al lettore di correre sui binari di mondi che non sono mai esistiti… Oppure, che da qualche parte magari esistono – in fondo, noi, che ne sappiamo? Tanto più di questi tempi, in cui il mito dell’antropocentrismo sembra un po’ démodé. Si tratta della domanda che olea gli ingranaggi della macchina delle infinite possibilità: lo storytelling.
Il mondo possibile in Cecità, di J. Saramago
Prendiamo la lente d’ingrandimento. Vi porto, oggi, nel Che cosa accadrebbe se? messo a punto in Cecità, il romanzo da premio Nobel scritto da José Saramago e pubblicato nel 1995. Nel racconto riecheggiano alcune parole-chiave che rappresentano, per così dire, “temi caldi” oggi più che mai: epidemia, contagio, quarantena sono solo alcune di queste. Che cosa è accaduto nel mondo possibile dello scrittore portoghese? Di cosa soffrono questi esseri umani anche loro possibili?

La perdita della vista: l’epidemia
Le strade della città di Saramago sono trafficate: pullulano di macchine in carreggiata, pali di semafori e strisce pedonali. Proprio come accade per le nostre strade, i pedoni e le macchine fanno a turno in quell’eterno gioco (o giogo!) che è l’alternarsi delle luci rosse, gialle e verdi. Passo io, passi tu. Una macchina resta ferma anche se scatta il verde, i conducenti in fila iniziano a suonare i clacson come in un coro di djembe, ovviamente s’incazzano. Quello che i conducenti impazziti non sanno è che il conducente di quell’auto è diventato cieco.
Ad un tratto, una cecità improvvisa! Saramago la descrive come “un mare di latte”. Ed è in un mare di latte, in un biancore privo di coordinate, che finisce dapprima una cerchia ristretta di personaggi. Progressivamente, ad uno ad uno tutti quanti, tutta la città e poi, forse, tutto il mondo. Una catastrofe! Saramago ce la sbatte davanti agli occhi, a noi che gli occhi li abbiamo, con una sensazionale vivacità di immaginazione. Per la costruzione così precisa dei gesti e sensazioni dei ciechi, viene quasi da pensare che l’autore stesso abbia provato la sua personale cecità, bendandosi gli occhi per alcuni giorni.

Discorsi sull’uomo: temi e problematiche esistenziali
I primi contagiati vengono condotti in un manicomio, dove secondo disposizioni governative avrebbero svolto il periodo di quarantena. Qui, senza gli occhi per guardare e privi di aiuto esterno, vengono abbandonati a se stessi. Fuori è stato di emergenza. Quante volte lo sentiamo anche noi in televisione? Ma torniamo al romanzo, dove il numero degli internati aumenta esponenzialmente. Non ci sono regole. Esseri senz’occhi vagano tra sudiciume ed escrementi e lottano per strapparsi il cibo di bocca: una giungla per la sopravvivenza. Militari spaventati e privi di empatia li ammazzano alla prima occasione. Come fossero manichini, non più uomini. Tra le righe: forse non lo erano già più.
Righe claustrofobiche, in cui dilaga il pessimismo dello scrittore. Rendono bene il fetore che sta avvolgendo i corpi dei protagonisti e le umiliazioni che sono costretti a subire. In particolar modo, i corpi delle donne. Corpi da sacrificare. I pesci grandi mangiano i pesci piccoli. Ma quando anche i pesci piccoli attaccano, allora è carneficina. Una volta fuori dal manicomio, il gruppo di ciechi protagonisti torna in città – là dove la descrizione di Saramago raggiunge picchi catastrofici alla Resident Evil. Non ci sono zombie, ma uomini senz’occhi. Questi non si chiamano più col proprio nome, non si identificano più e si calpestano l’un l’altro. Che cosa sono se non zombie viventi?
Il Che cosa accadrebbe se? in La cecità si interroga sulle inclinazioni dell’uomo e sul suo senso di solidarietà. Tocca i temi dell’egoismo e della legge del più forte. Sì, la risposta che Saramago si dà, ce l’abbiamo sotto gli occhi noi lettori sconcertati, ma anche eccitati: l’uomo è cieco perché non si guarda davvero neppure quando vede, perché ha perduto (un po’ come accade agli uomini altri di Dostoevskij) il senso di comunità e appoggio reciproco. Ha perduto, insomma, la propria umanità.

Cecità e femminismo: la figura dell’eroina
Solo una donna vede ancora. Ella incarna la figura dell’eroina che guida il gruppo di ciechi protagonisti fino a…. (okay, evitiamo lo spoiler sul finale). Una donna! Possiamo vederci, se vogliamo, l’esaltazione di un tipo di intelligenza, quella emotiva, tipicamente femminile. Bistrattata nei secoli a favore di quella logico-razionale, questa rappresenta forse la vera porta di accesso alla comprensione dell’altro. Ed attraverso l’altro, anche di noi stessi. Il romanzo parla dunque della perdita della capacità di comprensione, della difficoltà di comunicazione tra le persone.

Allo stesso modo, la comprensione di qualcosa altro da noi ci riporta al qui ed ora che ci appartiene. Chi si sarebbe aspettato una pandemia nel duemila venti? Ecco che partendo da un saggio sulla natura umana, siamo arrivati all’epidemia da Covid-19. Scenario di un mondo possibilissimo che è toccato a noi.
Non siamo mica più abituati alle epidemie. Adesso, tendiamo l’orecchio al telegiornale e controlliamo le statistiche dei contagiati. Ci arrabbiamo. Internati un’altra volta tra le mura domestiche, chilometri lontani dalla famiglia, dai nostri fidanzati e amici. Da tutta l’umanità. Noi che Ci piace viaggiare! Che i biglietti Rayaner non costano un caz**! Che siamo la generazione Erasmus! Adesso stiamo immobili fra quattro mura. In fila ai supermercati, come in una vignetta di Zerocalcare… Almeno vediamo dove mettiamo i piedi. Noi, che pure abbiamo puntato il dito contro ai cinesi, poi l’Europa ha puntato il dito contro l’Italia, poi tutte le dita si sono scontrate come infinite rette per un punto solo. Ve lo ricordate? Di questi tempi a noi non resta che guardarci dritti negli occhi. Ce lo ha spiegato Saramago: spesso siamo ciechi solo perché vogliamo esserlo.

Artista: Tvboy / Fonte: Pinterest
Articolo di Alessia Casciaro