4 Novembre 2020. Non è un giorno come gli altri per il mondo, in particolare per una parte di esso.
La scorsa settimana è stato eletto il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America, che si ritroverà a fronteggiare una sfida globale che non ha precedenti. In occasione della freschissima nomina del democratico Joe Biden, è interessante tornare indietro nel tempo e ricordare gli eventi che hanno scosso le scorse elezioni americane, e che hanno gettato luce su un tema che domina la nostra società iper-connessa.
Non mancando di consigliarvi pellicole con cui riempire le vostre serate (o giornate intere, come spesso accade alla sottoscritta), il protagonista dell’articolo che propongo oggi è il documentario “The Great Hack” (2019), originale Netflix. Molti di voi potranno criticarmi per essere in ritardo sulla tabella di marcia, ed ahimè come darvi torto: il film in questione era nella mia lista Netflix probabilmente dalla data di uscita, ma solo questa corsa elettorale al cardiopalma mi ha risvegliato dal letargo e ricordato della sua esistenza. Mi pento e mi dolgo.

Il caso Cambridge Analytica
Senza divagare ulteriormente, procediamo alla presentazione della vicenda. Siamo nel dicembre del 2015 quando il giornalista del The Guardian, Harry Davies, pubblica per la prima volta un articolo di denuncia nei confronti della società di consulenza politica britannica Cambridge Analytica. Nel pezzo in questione, Davies accusava la società di stare raccogliendo dati di milioni di utenti di Facebook senza consenso con l’obiettivo di favorire l’ascesa al senato per il Texas del candidato repubblicano Ted Cruz. Questo suscitò l’interesse di molti altri giornalisti, che col tempo iniziarono ad indagare sulla società e le sue presunte attività illecite.
Dal canto suo, invece, Facebook si rifiutava di rilasciare dichiarazioni, affermando di stare già investigando sull’accaduto. Il tutto si risolse in un nulla di fatto fino al marzo del 2018, quando si scatenò l’inferno. È il 16 marzo quando Facebook annuncia la sospensione da Cambridge Analytica e della sua società madre, Scl Group. Questa decisione si scoprì poi essere il tentativo di contenere il polverone che stava per alzarsi a causa di tre articoli pubblicati il giorno seguente rispettivamente sull’Observer, sul The Guardian e sul New York Times. Questi denunciavano le possibili implicazioni di Cambridge Analytica con la vincente campagna elettorale di Donald Trump e con la Brexit. In particolare, l’Observer riportava la testimonianza di Christopher Wylie, informatore ed ex dipendente dell’azienda che dichiarava:
Abbiamo utilizzato Facebook per acquisire milioni di profili personali, e abbiamo costruito modelli per sfruttare le informazioni di ciascuno e fare leva sui loro demoni interiori. Queste erano le basi su cui si fondava l’intera azienda.
Il proseguimento delle indagini
Le indagini rivelarono poi che Aleksandr Kogan, un data scientist dell’Università di Cambridge, aveva sviluppato un’app chiamata This is your digital life fornita poi a Cambridge Analytica. Questa, esportata su Facebook, favorì il completamento da parte migliaia di utenti di un sondaggio per uso puramente accademico. Sfortunatamente, la piattaforma social avrebbe permesso a questa app di raccogliere i dati non soltanto di coloro che avevano accettato di sottoporsi al sondaggio, ma anche di tutta la loro rete di contatti. Così, il numero di informazioni personali acquisite dell’azienda diventò decisamente rilevante. Addirittura, le testate giornalistiche riportavano la raccolta di informazioni di circa 50 milioni di utenti. Dal canto suo, Cambridge Analytica dichiarava di possedere i dati di solo 30 milioni di utenti, mentre il numero attestato da Facebook si aggirava attorno agli 87 milioni.

Lo scandalo ebbe un’eco eccezionale, portando molti a rendersi conto che lo scambio dei dati stava aprendo le porte ad una nuova era, facendo interrogare sulla neutralità ed eticità delle piattaforme social media.
Il documentario, in 139 minuti, utilizza come escamotage narrativo la vicenda di David Carroll, professore associato alla Parsons School of Design, che intenta una causa a Cambridge Analytica con l’obiettivo di riappropriarsi dei dati che gli erano stati sottratti. La sua storia rende la narrazione molto personale, e Carroll si fa portavoce in carne ed ossa di tutti gli utenti lesi dall’agenzia; la sua vicenda guida lo spettatore all’interno degli eventi, per poi eclissarsi durante lo svolgimento ed infine riprendergli la mano giunti al finale. Ancora prima, però, guardiamo confusi il contesto entro il quale ci proietta la prima scena del film. Ci troviamo infatti al Burning Man Festival, che si tiene ogni estate nel Black Rock Desert del Nevada, e che deve il proprio nome al fantoccio che si fa ardere durante la serata del sabato. Non a caso, il tema del Festival per quell’anno era “I, Robot”.
Qui troviamo una ragazza con una parrucca rosso fuoco intenta nello scrivere con un pennarello due parole, proprio alla base del tempio che verrà poi incendiato. La scena è molto evocativa sia per l’identità della ragazza che per la frase scritta: lei si chiama Brittany Kaiser, ex direttrice del business development di Cambridge Analytica, ed è proprio il nome della società che incide alla base del tempio. A mio parere, è lei la protagonista assoluta del documentario: lei si confida con noi, parla del suo passato e dei tormenti della sua vita, ci racconta la sua ascesa in Cambridge Analytica e, senza peli sulla lingua, di come abbiano lavorato per influenzare gli elettori statunitensi e britannici.

Parte del sistema
È una pentita. O, perlomeno, è così che il documentario ce la mostra, rendendola il più umana possibile e lasciando poi allo spettatore la decisione di condannarla. Impresa, a mio parere, audace. Faccio questa riflessione perché guardare il documentario mi ha fatto interrogare a lungo su cosa avrei fatto io se fossi stata al suo posto. Quando certe pratiche legali risultano facili da aggirare, quando il mondo ci mostra continuamente che la politica è ormai un prodotto, ed i vincitori sono semplicemente coloro che vendono in maniera più efficace il proprio candidato, come possiamo credere che far dichiarare banca rotta a Cambridge Analytica sia una soluzione? Perché non riflettiamo su un sistema in cui siamo immersi fino al collo, e che non permette passi indietro? E, infine, come si fa a coniugare etica e morale in un mondo in cui ottenere il risultato migliore è l’unica cosa che conta?
A queste domande, io, personalmente, non mi trovo a dare una risposta definitiva. Tutto ciò che posso dire, è che la democrazia si sta arenando a riva di questo sistema, ma già comprendere e preservare l’importanza di un dibattito libero e non condizionato potrebbe guidare chi di dovere a proporre delle soluzioni efficaci, che al momento mancano.
Riflessioni critiche
Non manco, infine, di muovere alcune critiche al documentario stesso. Per quanto avvincente, questo infatti manca di una spiegazione lineare degli accadimenti di una vicenda che, di per sé, risulta complessa: mi sono spesso ritrovata infatti a dover fare delle pause per collegare i tasselli. Inoltre, il ruolo di Aleksandr Kogan, sempre a mio modestissimo parere, avrebbe potuto essere specificato meglio, così come quello di Facebook, che non compare esplicitamente nella lista dei condannati. Infatti, guardare questa pellicola non basta ad avere una visione approfondita e chiara della questione, sempre che qualcuno sia interessato ad averla!
Un’ultima questione che mi ha fatto riflettere è se fosse giusto assolvere gli informatori, tutti coloro che hanno lavorato all’interno di Cambridge Analytica e che poi, al momento del tracollo, hanno deciso di pulirsi la coscienza svelandone i segreti. Ecco, io non mi sento di perdonarli. Chi non si è interrogato sulle conseguenze delle proprie azioni, oppure chi lo ha fatto ma poi non ha agito per i più svariati motivi, mi convincerà sempre poco. Quello che credo, però, è che queste persone potrebbero utilizzare le proprie conoscenze e la propria esperienza per mettere in guardia il mondo dall’esistenza di queste, come le chiamerebbe Cathy O’Neil, “armi di distruzione matematica”, per far sì che casi come Cambridge Analytica restino dei satelliti isolati in una galassia.
Articolo di Chiara Forcellese