Liguria, Campania, Veneto, Toscana, Puglia, Marche, Valle d’Aosta. Sette regioni e un solo vincitore. La partita delle regionali del 20 settembre sancirà la vittoria del fronte più compatto. Per ora a essere favorito è il centrodestra – in vantaggio in 4 regioni – e la sua vittoria potrebbe mettere in difficoltà la già precaria tenuta del governo. Perché? In primo luogo perché la crisi pandemica ha aumentato la tensione nel rapporto Stato-Regioni. Durante il Great lockdown, i singoli governatori hanno sperimentato un senso di paternalismo nei confronti del territorio, svincolandosi dal governo con ordinanze invalide e risvegliando sentimenti autonomisti – vedi l’ordinanza promulgata da Musumeci per l’emergenza a Lampedusa.
In più, i risultati delle elezioni potrebbero fungere da moltiplicatore in favore di una destra radicale che da mesi guadagna terreno facendo pressione su Palazzo Chigi, sempre più esposto ai cambi di maglia dei propri esponenti di maggioranza in Parlamento. Le regionali sono da decenni un rinforzo ai consensi di una determinata forza politica e una rovina per quella al governo, se sfavorita. Nel 2005 per esempio la coalizione di centrodestra guidata da Silvio Berlusconi – la Casa delle Libertà – perse clamorosamente ben sei regioni, dalle dieci di partenza. Di lì a poco il suo governo sarebbe miseramente caduto in favore del centrosinistra.

La destra favorita
Negli ultimi mesi i consensi persi da Salvini sono finiti nelle tasche della Meloni, la quale ha cominciato a giocare un ruolo di grande influenza all’interno della coalizione. A tal punto da ottenere due regioni contendibili, due “swing states” all’italiana in cui piazzare due candidati ad alto gradimento. Se entrambi dovessero vincere, Fratelli d’Italia si ritroverebbe a dirigere l’orchestra dell’opposizione, alimentando il suo peso negoziale. E così, mentre in Veneto la rielezione del leghista Luca Zaia è data per scontata, il termometro dei consensi segna un 49% di vantaggio al pugliese Raffaele Fitto (FdI) e una solida posizione in Liguria e Marche con Toti e Acquaroli (FdI). Per chi non lo sapesse, Acquaroli è uno di quelli che il 28 ottobre scorso festeggiava la Marcia su Roma.
Il centrosinistra sembra essere invece il fronte che nella maggioranza dei casi uscirà sconfitto dalle elezioni. Basta pensare a Eugenio Giani – candidato Pd in Toscana – in vantaggio di appena un punto sulla competitor Susanna Ceccardi (Lega). Due sono i problemi del Pd in Toscana: uno è Renzi, l’altro è Enrico Rossi. Il primo una palla al piede per via dell’ancora acceso renzismo nella regione; il secondo indagato per turbativa d’asta (appalti pubblici truccati). Dunque una martellata sul già debole consenso della sinistra nel territorio. Ma anche la reputazione di Vincenzo De Luca in Campania – colonna portante del Pd partenopeo – sembra macchiarsi. De Luca è infatti indagato per falso e truffa ai danni dello Stato.

Liguria: l’intervento dei candidati di punta
In Liguria, ormai, i cittadini sembrano propendere per l’incumbent Giovanni Toti, dato al 57%. Lo sfidante – il giornalista Ferruccio Sansa – è stato l’unico candidato scelto di comune accordo tra Pd e M5S, segno di una difficile convivenza sul territorio tra le due principali forze di governo. Nelle altre regioni infatti il Pd si è appellato agli elettori M5S perché praticassero il voto disgiunto. Ma anche Toti è stato investito il mese scorso da uno scandalo. La Corte dei Conti ha rilevato come non siano stati spesi 13 dei 235 milioni stanziati dal governo per l’emergenza causata dal crollo del ponte Morandi. Sembra inoltre che il governatore spezzino abbia favorito aziende non direttamente coinvolte nei disagi provocati dal crollo.
Qualche giorno fa sono riuscito a contattare Sansa per chiedergli cosa pensasse dello scandalo. Lui risponde:
Il punto è la cattiva amministrazione di Toti. Lui si è intestato il merito della ricostruzione del ponte. Il ponte lo ha fatto il governo e il commissario straordinario (Marco Bucci, ndr). Toti doveva solo distribuire il denaro del governo, cosa che ha fatto in maniera inefficiente.
Poi si focalizza sul tema della sanità.
Toti ha distrutto la sanità ligure. L’ha privatizzata, smantellando dei servizi eccellenti. I risultati si sono visti con la pandemia. Lui voleva il modello lombardo della sanità e ha ottenuto il modello lombardo nella gestione Covid. Noi vogliamo fermare la privatizzazione della sanità ligure, investendo nel modello assistenziale e potenziando l’offerta del servizio sanitario regionale.
Possibile un centrosinistra compatto alle comunali del 2022?
Serve un’alleanza strategica e strutturale di lungo periodo, un’alleanza vera. Se tu fai un’alleanza diversa ogni sei mesi non realizzi nulla.
Essendo poi un amante della par condicio, ho deciso di contattare anche Toti sul tema dei 13 milioni. La sua risposta apre a un altro scenario.
Il Decreto Genova aveva stanziato per il triennio 2018-2020 un totale di 220 milioni, più 13,5 milioni per assunzioni a tempo determinato negli enti locali. Le risorse sono state tutte stanziate per rimborsare chi ne aveva bisogno. L’unico disavanzo riguarda gli strumenti di sostegno al reddito, ovvero la cosiddetta una tantum di 15’000 euro e la cassa integrazione in deroga. Erano 30 milioni per gli anni 2018-2019 e ne sono avanzati poco più di 13. Da mesi chiediamo al governo di utilizzare i fondi residui per quelle realtà escluse dal decreto, ma il governo non risponde. Se quei fondi possono essere utilizzati per altre realtà economiche lo può decidere solo il governo, né la Regione né il commissario d’emergenza.
Il baricentro dei poteri nel centrodestra si sta nuovamente spostando. Il nuovo partito di Toti (Cambiamo!) punta a sostituire il vuoto lasciato da Forza Italia, giocando un ruolo garantista ed europeista nel centrodestra. Vero o falso?
Cambiamo! punta a dare voce a tutti coloro che non si sentono più rappresentati dai partiti tradizionali e sognano un nuovo centrodestra. Un partito che riparte dai territori, dagli amministratori locali che hanno più esperienza e buonsenso di chi occupa tante poltrone. Cambiamo! unisce liberi cittadini che si ispirano ai valori della tradizione liberal-democratica, che vede nei principi fondamentali della civiltà occidentale un punto di riferimento irrinunciabile. È un movimento che dà voce alla forte esigenza di rinnovamento delle istituzioni e del sistema della rappresentanza, che punta sulla meritocrazia con un sistema di democrazia interna che preveda la contendibilità delle cariche del movimento.
Referendum: sì o no?
Solitamente, emendare la Costituzione è come guardare il sole ad occhio nudo. Chiunque ci provi rischia di accecarsi. Significa modificare la legge fondamentale dello Stato, un qualcosa di tanto caro alla cultura istituzionale del nostro Paese che spesso la classe politica al potere preferisce lasciare stare, a meno che non abbia un livello sufficiente di consenso per farlo. L’ultima volta che era stato approvato dai cittadini un referendum costituzionale era l’autunno del 2001.
Matteo Renzi ci ha provato quindici anni dopo, con la cosiddetta riforma costituzionale Renzi-Boschi, la quale avrebbe diminuito il numero dei senatori dagli attuali 315 a 95. Senatori che peraltro sarebbero stati eletti dai propri consigli regionali di appartenenza e non più con il voto del cittadino. Ma la riforma, che Renzi era sicurissimo di vedere approvata, fu sonoramente bocciata il 4 dicembre 2016 dal 59% degli elettori. Il suo governo cadde pochi giorni dopo, davanti al tripudio dell’opposizione. La brutta fine che fece Renzi nel tentativo di emendare la Costituzione potrebbe nuovamente ripetersi dopo lo spoglio delle urne il 21 settembre. Una sorta di arma a doppio taglio, in grado di ferire più chi la brandisce, se brandita male.

Un buon emendamento necessita di correttivi
Al di là di cavilli e tecnicismi, la riforma presentata dal governo giallorosso sancisce il taglio di 230 deputati (da 630 a 400) e di 115 senatori (da 315 a 200), una diminuzione di circa il 30%. Tuttavia, pur non essendo un’idea malvagia in sé, la ridefinizione del Parlamento necessita di numerosi correttivi per funzionare. Soprattutto perché se lasciata schietta – e con l’attuale legge elettorale – alle prossime elezioni rischia di fare solo danni.
Parliamo di cose come modificare l’assetto delle commissioni parlamentari (che discutono le leggi prima di passarle alla discussione in aula), l’abbassamento dell’età per votare i senatori da 25 a 18 anni, una progettazione delle circoscrizioni e dei collegi tale da rispecchiare la popolazione nel nuovo Parlamento, in nome della rappresentanza. E dulcis in fundo, una legge elettorale che garantisca il proporzionale, non per forza su modello tedesco – che prevede una soglia di sbarramento del 5%. Partitini come Italia Viva o Liberi e Uguali la preferirebbero al 3%.

La maggioranza ha cominciato a discutere questi correttivi a metà settembre, incontrando però l’ostruzionismo del centrodestra (in primis Lega e Fratelli d’Italia, che avevano votato in Parlamento a favore l’anno scorso). Anche l’opinione pubblica sembra spostarsi, sulla scia delle principali testate giornalistiche d’Italia (trainate da un unicum dominum, il gruppo Exor degli Agnelli). Secondo un sondaggio condotto da Swg, il gradimento degli italiani per la riforma è calato dall’84% di giugno al 70% di inizio settembre. Segnale, questo, che qualcosa potrebbe andare storto.
L’imperativo però rimane lo stesso. Presto arriveranno i fondi del Recovery plan: 209 miliardi di euro, di cui 82 a fondo perduto e 127 in prestiti. Il governo deve restare compatto e dialogare con le opposizioni per garantire l’equilibrio. Questo non è un gioco, riguarda la vita di tutti noi. Il nostro futuro. Abbiamo, tutti, un’opportunità per cambiare il Paese. Prima che venga commissariato da Bruxelles.
Articolo di Umberto Merlino