La chiusura forzata del sito ungherese Index non è altro che l’atto finale di un vero e proprio assalto alla libera espressione da parte del governo di Orban.
Mentre la diffusione del coronavirus nel mondo non accenna a fermarsi, c’è un altro fenomeno di grande portata che dovrebbe attirare la nostra attenzione: la stretta mortale sull’informazione indipendente operata in Ungheria dal premier Viktor Orban. Lo scorso 25 luglio, infatti, migliaia di persone hanno manifestato davanti alla sede della presidenza a Budapest per chiedere a gran voce una stampa libera. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata il licenziamento, voluto dal governo nazionalpopulista, del direttore di Index.hu. Si tratta del più grande giornale online ungherese – noto soprattutto per la sua opposizione alla politica di Orban. Da molto tempo, Orban definiva questa piattaforma “una fabbrica di fake news“: ora che anche Index è stata messa alle strette, non vi è più nemmeno una fonte di informazione indipendente in tutta l’Ungheria.

Cosa è accaduto
Lo scorso venerdì, i tre principali redattori di Index Attila Tóth-Szenesi, Veronika Munk e János Haász hanno avviato la cessazione del loro impiego presso Index, seguiti dagli oltre 70 giornalisti della redazione. Sono gli stessi giornalisti a spiegare la loro decisione: László Bodolai, presidente del consiglio di amministrazione di Index.hu, ha rifiutato di ripristinare l’impiego di Szabolcs Dull per garantire l’indipendenza e il futuro di Index, nonostante la richiesta della redazione del sito. Il licenziamento del direttore si era verificato dopo che egli stesso aveva denunciato pubblicamente i tentativi di pressione sulla linea governativa della testata, da parte di uomini molto vicini al premier nazionalista.
Licenziandosi in blocco come segno di solidarietà al proprio direttore, la redazione ha dunque voluto lanciare un messaggio fortissimo al governo ungherese. L’intera squadra ha definito la decisione di Bodolai come inaccettabile.
Da anni diciamo che esistono due condizioni per il funzionamento indipendente di Index: che non vi sia alcuna influenza esterna sul contenuto che pubblichiamo o sulla struttura e composizione del nostro staff. Licenziare Szabolcs Dull ha violato la nostra seconda condizione. Il suo licenziamento è una chiara ingerenza nella composizione del nostro personale e non possiamo considerarlo in nessun altro modo se non come un chiaro tentativo di esercitare pressioni su Index.hu. In tali circostanze, a seguito della decisione di Bodolai, il comitato editoriale ha ritenuto che non esistessero più le condizioni per un’operazione indipendente e ha avviato la cessazione del rapporto di lavoro.

Più precisamente, il licenziamento del direttore Szabolcs Dull ha costituito una delle prime conseguenze tangibili dovute all’acquisizione del 50% delle quote della società editrice del sito da parte di un imprenditore molto vicino allo stesso Orban, Miklos Vaszily. Vaszily aveva imposto un nuovo management proprio la settimana scorsa, affermando che il direttore Dull avesse provocato dei danni economici al giornale. Fino a quel momento, l’indipendenza del giornale era stata garantita da una fondazione, che vedeva la partecipazione in parti uguali di finanziatori e giornalisti della redazione.
Coincidenze?
Sin dall’elezione di Orban come Primo ministro nel maggio 2010, Index aveva riportato alla luce vari scandali che inchiodavano i suoi stretti collaboratori, dimostrandosi così uno strumento di giornalismo investigativo di alto livello.
Solo quattro anni fa, il governo ungherese ha adottato un piano d’azione simile per spingere alla chiusura completa il quotidiano cartaceo Nepszabadsag – anch’esso acquistato da un oligarca molto vicino a Viktor Orban. Risale a due anni prima, invece, la vendita del sito di informazione Origo alla società di media legata al partito Fidesz, di cui proprio Viktor Orban è leader indiscusso. La linea governativa della piattaforma è diventata praticamente subito filo-governativa.
È Ansa, la più importante agenzia di stampa italiana, ad affermare come queste azioni siano parte di una strategia più ampia, adottata da Orban sin dai primi mesi di insediamento. L’obiettivo del premier sarebbe quello di trasformare sistematicamente i media pubblici in organi di propaganda governativa, spingendo al silenzio tutte le voci dissidenti.
Il retroscena
A questo punto, verrebbe da chiedersi: e l’Europa? I leader dei ventisette Stati membri si sono incontrati proprio pochi giorni fa a Bruxelles, per giungere ad un accordo sul Recovery Fund. Possibile che abbiano tutti fatto finta di niente, pur sapendo benissimo quanto sia critico lo stato di salute delle libertà fondamentali in Ungheria? Fortunatamente, no. Due anni fa, il Parlamento europeo aveva chiesto al Consiglio di adottare dei provvedimenti, proprio per evitare che l’Ungheria violasse i valori dell’Unione in materia di indipendenza giudiziaria, libertà di espressione, corruzione, diritti di minoranze, migranti e rifugiati. Contro l’Ungheria, è quindi stata avviata una procedura sullo stato di diritto, in riferimento a quanto indicato dall’articolo 7 del Trattato di Lisbona.

L’Istituto per gli studi di politica internazionale ISPI ricorda che una risoluzione del Parlamento europeo varata a inizio 2020 ha messo in luce come la difficoltà del Consiglio di applicare in maniera efficace l’articolo 7 continui a compromettere l’integrità dei valori comuni. Fino a quando non si scioglierà questo nodo, Fidesz ha tutto il diritto di restare nel Partito popolare europeo (Ppe).
Per evitare lo stallo nell’approvazione del Recovery Fund, il Consiglio europeo è approdato a una formulazione abbastanza vaga sul meccanismo di condizionalità tra rispetto dello Stato di diritto e stanziamento dei fondi comunitari. Il presidente del partito Renew Europe, Dacian Ciolos ha chiesto al Consiglio europeo e alla Commissione di agire con urgenza, puntando il dito contro il Ppe che deve smettere di legittimare il percorso illiberale di Orban.