Il confine tra mondo online e offline è diventato quasi invisibile. È impossibile riconoscere l’impatto che social network come Facebook hanno sul mondo “reale”. Parole come disintermediazione e post-verità sembrano dover riguardare solo i sociologi. In realtà ci toccano da vicino, anche quando in fila al supermercato apriamo Facebook che ci chiede: “A cosa stai pensando?”.
I social network hanno esteso il nostro potere comunicativo all’intero globo e fungono da scorciatoie informative, permettendo l’accesso ad un’informazione più diretta. Almeno è questo quello che ci ripetono i sostenitori di queste piattaforme.
La verità è che Facebook nel momento in cui ci chiede a cosa stiamo pensando realizza un processo definito di disintermediazione, vale a dire eliminazione di mediazione. Un po’ quello che tutti sognano e che l’avvento di Internet ha poi realizzato. Finalmente è possibile uscire nella piazza virtuale e dire quello che si pensa. Certamente, la disintermediazione non riguarda tutte le volte che esprimiamo una nostra opinione su internet, ma avviene nel momento in cui Facebook ci permette di arrogarci la posizione di esperti, quando esperti non siamo.

Il potere di mediazione delle istituzioni
Chi offriva allora questa mediazione che Facebook ha reso inutile?
Il potere di mediazione è quello realizzato dalle istituzioni e dalle organizzazioni. Un medico, ad esempio, per svolgere la propria professione ha necessità di mediare attraverso l’istituzione università, che con il conferimento della laurea garantisce l’acquisizione delle competenze necessarie a svolgere la professione. La stessa cosa vale nel mondo dell’informazione: sono le redazioni dei giornali che dovrebbero mediare e garantire che i propri giornalisti dicano il vero. Lo stesso articolo che state leggendo in questo momento, è arrivato a voi passando prima attraverso la redazione di Schegge, che ne ha controllato l’attinenza alla propria linea editoriale.
Il potere di disintermediazione di Facebook
Al contrario, Facebook permette a chiunque lo voglia di improvvisarsi giornalisti, esperti di moda o di politica internazionale. Per alcuni utenti la situazione non differisce molto dallo scambiare quattro chiacchiere con gli amici, altri invece acquisiscono un vero e proprio potere di condizionamento su un numero considerevole di persone: sono i così detti influencer. Personaggi pubblici, politici, stilisti, giornalisti, divulgatori scientifici con un elevato numero di seguaci possono diventare influencer. Vi starete chiedendo cosa ci sia di male… Effettivamente niente. Qui parliamo di personaggi pubblici, la cui popolarità è stata acquisita nello svolgimento di funzioni che richiedevano una competenza, su cui c’è stata una verifica precedente da parte di una qualche istituzione. Oggi invece, non è richiesta alcuna competenza riconosciuta per poter offrire i propri consigli, basta aprire il proprio profilo e rispondere alla domanda “A cosa stai pensando?”, basta solo pensare o anche meno.
A questo tipo di influencer che nasce online non è richiesta alcuna competenza. Sarà sufficiente creare attorno a sé una comunità che gli riconosca delle doti, disposta a sostenerlo e che prenda per vero tutto quello che dice. La rete diventa in questo modo capace di attribuire uno status, che fino a poco tempo fa era attribuito dalle istituzioni. Nessuna istituzione ha però verificato la presenza di quei requisiti minimi necessari per raggiungere quello status. Non sempre è un male. Il web ha fatto emergere talenti che forse sarebbero rimasti nell’ombra o personaggi capaci di trasformare la propria popolarità in attività imprenditoriale. Ma quanto c’è di vero in tutto questo?
Il brand personale
Il regalo della disintermediazione ha offerto la possibilità di presentarci agli altri per quello che siamo: politicamente appassionati, artisticamente acculturati e sportivamente allenati. O forse, è l’occasione per raccontarci per come vorremmo essere, in una gara tra utenti per imporre il proprio brand personale . Alcune ricerche dimostrano che utilizzare Facebook senza postare dei contenuti propri non ci soddisfa. La mancanza di like e di feedback è la principale causa di frustrazione nell’utilizzo di Facebook. Guardare il profilo dei nostri amici ci fa sentire soli e mortificati per questo ingaggiamo una gara per la promozione personale. Il tutto facilitato da un’epoca, la nostra, che ha grossi problemi con la celebrità. Siamo ossessionati dalle persone famose e dal dover essere come loro.

La menzogna dell’utilizzo dei social per rimanere connessi è ormai superata. Una ricerca condotta dal Massachusets Institute of Tecnology ha dimostrato che la maggior parte delle comunicazioni su internet avvengono con persone entro un raggio di 160 chilometri da noi. Scrive Keen in Internet non è la risposta:
È insomma un mito il fatto che questi strumenti vengano utilizzati per “comunicare”: in realtà ci limitiamo a parlare con noi stessi tramite i cosiddetti social network.
La post-verità
Facebook diventa il luogo dove la verità non è più vera ma nemmeno falsa, ma diventa post-verità. La post-verità è un’argomentazione che fa fortemente appello all’emotività e prova a far passare per veritiere argomentazioni che si basano su fatti non verificati. Diventa difficile verificare la miriade di informazioni che appaiono sulla nostra homepage. L’importante è esserne consapevoli e se siamo in fila al supermercato, apriamo Facebook e ci chiede a cosa stiamo pensando… Tranquilli, nessuno si offende se non diciamo la nostra su come risolvere il conflitto libico.