Sapersi collocare all’interno della Storia equivale a uno sforzo di comprensione dell’epoca di cui si è protagonisti. È uno sforzo necessario per non vivere passivamente il corso del tempo, semmai ne esista uno. Evocare il termine Coronavirus o la variante Covid-19 nei libri di storia, basterà per riassumere buona parte della narrazione attuale. Ma c’è da chiedersi quali altre parole verranno inglobate nella narrazione per diventarne chiavi di lettura.
La storia dell’epidemia dilagante non è nuova. La ritroviamo in Cecità di Saramago, ne La peste di Camus o nei Promessi sposi di Manzoni. Eppure oggi c’è un accordo generale sulla novità del fenomeno e si fa a gara a chi riesce ad evidenziarne gli aspetti più originali che sono poi quelli più intimi, invisibili. Cosa rende questa epidemia diversa dalle altre? Quale ricordo rimarrà nell’immaginario collettivo?
Il nemico invisibile
Il numero dei morti e la velocità nella diffusione, per quanto straordinari, non sono elementi nuovi nel dilagare di un’epidemia, ma parte del triste gioco. La prima cosa che distingue un’epidemia è il nome che le si attribuisce. D’altronde è solo dando un nome ai fenomeni che questi prendono forma, acquistano senso.
Si è iniziato a parlare di nemico invisibile: non lo vedi, non lo senti e si aggrappa proprio alla fonte del tuo respiro. Una volta individuato l’infimo nemico, si è provato a sconfiggerlo, e dato che per il momento non è possibile, a conviverci. Di qui, la seconda tranche della narrazione: la convivenza. Se all’inizio non si pensava che ad evadere, ora all’evasione si è aggiunta la paura. Almeno così dicono. In realtà nell’aria più che un sentimento di paura, si respira una brama di vivere, di ritornare alla “normalità” (sarà l’istinto di sopravvivenza a guidarci?).
Forse si sceglie di sopperire alla paura con una consapevole accettazione dell’incertezza. Ed è proprio l’incertezza l’elemento chiave per la ricerca sul senso della nostra epoca. L’incertezza sul presente a cui segue quella sul futuro, si comprende meglio se inserita in un processo post-moderno di decostruzione di ogni certezza, fondamento e stabilità. Senza entrare nel dettaglio, che piaccia o no, siamo figli dell’incertezza e dobbiamo imparare a conviverci. La comparsa del Coronavirus non è che la più calzante espressione di questo sentimento. Il vaso di Pandora è stato aperto e l’uomo si è trovato nudo davanti alla realtà. La narrazione in questo senso non vuole essere drammatica, come arrivati al capolinea, ma anzi aperta a possibili scenari futuri. Il punto non è se andrà tutto bene o tutto male, il punto è in che maniera lasceremo spazio al cambiamento.
Reagire all’incertezza
L’incertezza infatti è il vestito della nostra epoca e il cambiamento riguarderà la capacità di saperlo indossare. Significherà saper fare i dovuti accorgimenti per poterci stare dentro. L’incertezza riguardo il vaccino, il distanziamento sociale, il poter viaggiare liberamente e ritornare a lavorare in presenza, sulla portata delle conseguenze economiche. Il cambiamento sarà dato innanzitutto dalla capacità di riconoscere, accettare e reagire a queste incertezze. In tal senso conta l’accezione che si dà al termine incertezza, solitamente attributo negativo.
Oggi l’incertezza deve essere concepita come una risorsa. Significa non fermarsi troppo a vederla come un problema ma pensare a come reagire, a cosa poter diventare in uno scenario in continuo divenire. E in questo scenario c’è una categoria in particolare, a cui sarà richiesto il maggior sforzo creativo e trasformativo: i giovani. Spesso relegati a qualche trafiletto nei giornali o citati da qualche esponente politico alla televisione, durante l’emergenza Covid sono stati ampiamente relegati agli ultimi posti per importanza. Ci si dimentica troppo spesso a chi appartiene il futuro e in questo caso il futuro appartiene a chi saprà fondare sulle incertezze nuove certezze, mica cosa da poco.