Intervista a Marwa Mahmoud, esponente del movimento Italiani Senza Cittadinanza
Bastano un paio di click per ottenere informazioni sul movimento Italiani Senza cittadinanza, fondato nel 2016 per dare voce a tutti i ragazzi nati all’estero ma cresciuti sul territorio italiano per quella che, a tutti gli effetti, è una vita intera prima del riconoscimento formale da parte dello Stato. Sul sito si legge:
L’obsoleta legge n. 91 del 1992 non rispecchia l’attualità della nostra Italia, ci rende difficile e talvolta impossibile acquisire la cittadinanza italiana e molti di noi vengono considerati stranieri nel proprio Paese, liquidati come “Italiani col permesso di soggiorno”. Ma non siamo stranieri né straniere. Siamo gli “Italiani e Italiane senza cittadinanza”, uniti nel chiedere una legge 91/92 più aperta verso noi “figli invisibili”.
Nel nostro paese vive circa un milione di italiani senza cittadinanza: ragazzi e ragazze italiani a tutti gli effetti, ma su cui la politica continua a dividersi. Anni di dibattiti e campagne elettorali sono sempre terminati con un nulla di fatto. Oggi più che mai abbiamo bisogno di discutere di temi come la cittadinanza, perché nelle situazioni d’emergenza è facile dimenticarsi dei gruppi sociali che non possono imporsi con la forza. Abbiamo quindi intervistato Marwa Mahmoud, tra i fondatori di questo movimento.
Marwa ha 35 anni, è nata ad Alessandria d’Egitto ma fin da piccolissima ha vissuto a Reggio Emilia con la sua famiglia. Nell’aprile 2019, in un momento in cui l’ondata di sovranismo investiva e metteva in crisi anche una delle storiche roccaforti della sinistra, Marwa si candidava al Consiglio comunale di Reggio Emilia mettendo al centro del dibattito politico locale temi quali il dialogo multiculturale.
Al momento sei Consigliere Comunale a Reggio Emilia e presiedi la Commissione Diritti Umani. Com’è il tuo rapporto con la Lega?
Ho deciso di candidarmi in politica circa un anno fa, esattamente il 4 aprile 2019. Anche se sul piano sociale e culturale sono attiva in prima linea da molto tempo, soprattutto a livello nazionale, questa nuova esperienza mi sta spingendo ad essere più consapevole. Mi chiedevi come va il rapporto con i consiglieri d’opposizione… Ecco, io credo che, come molte altre persone nel mondo, loro abbiano dei pregiudizi: nel mio caso, all’inizio hanno probabilmente pensato di aver trovato la conferma in alcuni di questi perché, per esempio, sono una donna musulmana… Insomma, che fossi stata inserita in Consiglio semplicemente come “quota”. Ponendosi contro di me con una mozione di sfiducia lo scorso novembre, credo pensassero di poter attaccare la realtà che rappresentavo. In realtà, io non rappresento solo le oltre 800 persone di origine straniera, ma anche tanti reggiani doc. Ne sono certa: con molti ragazzi e ragazze condivido uno scrigno di valori e ideali. Questo è emerso quando, in risposta a quella mozione, in Consiglio comunale sono venuti tantissimi cittadini reggiani a sostenermi… Penso che questo episodio abbia fatto capire ai miei colleghi che io voglio essere portatrice di un messaggio di dialogo. Penso che il dialogo sia lo strumento più opportuno da usare in questa epoca, soggetta a migrazioni e cambiamenti continui. È anacronistico credere che il mondo vada interpretato solo in bianco e nero, con un modello standard adatto a tutti e cui poter fare riferimento per qualsiasi cosa.

Cos’è Italiani senza cittadinanza?
Italiani senza cittadinanza è un movimento nazionale e io sono tra le sue fondatrici. È molto difficile lavorare in maniera organica quando si è una minoranza, soprattutto in un paese come l’Italia in cui non c’è ancora una piena rappresentanza della realtà nei suoi organi nazionali. È come se la nostra classe dirigente vivesse in un mondo parallelo. Abbiamo fondato questo movimento per fare pressione non solo a livello istituzionale, ma anche a livello scolastico e mediatico. Gli ostacoli che dobbiamo rimuovere sono tutti indicati nell’art. 3 della Costituzione. Non tutti i ragazzi che crescono in Italia hanno la cittadinanza e spesso ce ne si rende conto solo quando il compagno di banco ti dice “non posso venire in gita perché non ho il passaporto italiano” o quando il tuo collega di corso non può iscriversi ad un albo professionale perchè la Prefettura deve ancora finire di validare i documenti… Sì, ci sono delle discriminazioni che subiamo per via di un pezzo di carta. Ciò che spesso sbaglia la classe dirigente è cercare di politicizzare il tema: quello che vogliono i ragazzi non è tanto lo ius soli, quanto il poter essere davvero riconosciuti come uguali. Nel 2016 è mancato questo ragionamento: è il luogo in cui tu crei dei legami forti fin da piccolo il posto che tu chiami casa, perché senti di appartenervi. Questa è la cittadinanza.
In molte interviste hai dichiarato di sentirti “in equilibrio” tra due culture, quella italiana e quella egiziana. Cosa significa?
È qualcosa che torna spesso nella vita dei figli dei migranti questo equilibrio, così difficile da trovare. Infatti, quelle che la sociologia definisce “prime generazioni di migranti” sono tutte le famiglie che decidono di lasciare tutto e partire per trasferirsi in un nuovo territorio. I figli dei migranti, cioè le seconde generazioni, nascono e crescono nel paese d’arrivo. Vengono educati in una sfera domestica in cui si vorrebbe che questi ragazzi mantenessero il codice linguistico e culturale di provenienza; dall’altra, gli stessi ragazzi vivono il 90% della propria giornata in un mondo completamente diverso, con altri codici di riferimento. C’è quindi uno switch che sei chiamato a fare: alcuni riescono a stare bene con le proprie origini, altri invece hanno la necessità di inserirsi completamente in questo “nuovo mondo” per sentirsi accettati. È un percorso molto complesso. Personalmente, mi ritrovo in un altro gruppo ancora: anche se con mia mamma parlo in arabo, la mia cultura è plasmata dalle opere di Dante e Pirandello. Nel tempo, ho trovato un equilibrio in questo.

Mi racconti del giorno in cui ti hanno conferito la cittadinanza italiana? È cambiato qualcosa tra prima e dopo quell’avvenimento?
Avevo fatto richiesta per la cittadinanza a 18 anni, era estate. Con mio papà, andammo in Egitto a fare tutti i documenti necessari per poter richiedere la cittadinanza a Reggio Emilia. Ci sono voluti quattro anni perché accettassero la mia domanda: nel frattempo, io ho vissuto davvero come un’italiana senza cittadinanza. Ero una studentessa universitaria che non poteva cogliere molte opportunità. Per esempio, non ho potuto fare servizio civile, avevo già di base escluso tutte le facoltà che prevedessero poi l’iscrizione ad un qualche albo professionale… Ma soprattutto, non ho potuto votare: anche se facevo parte del paese, non potevo decidere chi mi dovesse rappresentare. Dentro mi sentivo italiana, ma questa mia certezza non era scritta nero su bianco. Quando finalmente arrivò la conferma, fu una grande festa. Ricordo che le mie amiche lanciarono la pasta anziché il riso… Da quel momento, non ho più smesso di prendere parte a questa battaglia.
Com’è possibile sentirsi italiani a Reggio Emilia ma non esserlo per lo Stato? Perché pensi che si faccia così fatica a dare un “riconoscimento ufficiale” agli italiani di seconda generazione?
A livello nazionale, i ragazzi e le ragazze senza cittadinanza sono un milione. Il messaggio che sta passando la classe dirigente, a prescindere dalle parti politiche in gioco oggi, è un’incapacità di lungimiranza. Incapacità di avere una visione che ti porti a capire che tra dieci o vent’anni l’Italia sarà sempre più multiculturale – anzi, tra i banchi di scuola lo è già! Dopodiché, ci vuole il coraggio di sfidare il proprio tempo. Mi sono sentita tradita dal Partito Democratico, soprattutto dall’allora governo Renzi. Per questo, è stato molto difficile candidarmi con il PD a Reggio Emilia e ho riflettuto molto prima di fare questa scelta. Ho capito però che c’è una grossa differenza tra il partito nazionale e il partito locale – che a Reggio ha una lunga tradizione di dialogo con il territorio e si faceva portatore delle mie stesse istanze. Per portare un cambiamento, c’era bisogno di qualcuno che avesse voce in capitolo e voglia di lavorare dall’interno.

È possibile parlare di diritto alla cittadinanza in questo momento così monopolizzato dall’emergenza coronavirus?
È difficile, ma credo sia doveroso farlo. E, secondo me, proprio in questo momento così delicato possiamo riflettere su quanto siamo fragili e uguali nonostante differenze superficiali quali il luogo di nascita o il paese d’origine dei genitori. Basta un nemico invisibile per metterci tutti sullo stesso piano.
Proprio in questi giorni, il sindaco di Bergamo Giorgio Gori, sottolineava la necessità di circa 200.000 braccianti da impiegare in agricoltura… Siamo ancora legati a quest’idea per cui i migranti arrivano, vengono regolarizzati e poi lavorano nei campi?
Purtroppo, l’ho toccato con mano quando abbiamo dovuto fare lobby politica con il movimento di Italiani Senza Cittadinanza: in Italia, chi detiene il potere di fare le leggi, non ha avuto l’opportunità di entrare in contatto con delle minoranze e, anche nel momento in cui questo è stato possibile, ha deciso di non tenerne in considerazione le istanze. Quando sei amministratore di una città o governatore di una Regione non puoi far finta di non vedere la direzione multiculturale verso cui sta andando il resto del mondo. Anche dal punto di vista culturale, pensare che ci siano gruppi sociali a cui dare importanza diversa è davvero pregiudiziale. La società è in continua evoluzione.
Vorrei chiederti un parere anche in merito alla scelta del Portogallo di regolarizzare gli immigrati richiedenti asilo o presenti sul territorio senza permesso di soggiorno. La classe dirigente portoghese ha motivato la scelta affermando che così avrebbe gestito meglio l’emergenza sanitaria. Perché noi non facciamo la stessa cosa?
Purtroppo siamo molto individualisti e nel nostro clima culturale non siamo portati a includere il diverso. Penso a quello che è accaduto in questi giorni: il presidente del Consiglio dei Ministri ha specificato che possiamo portare i bambini a fare una passeggiata veloce, ma a quattro settimane dallo scoppio della crisi non ha fatto parola delle condizioni difficilissime in cui si trovano i braccianti che ogni giorno ci permettono di trovare nei supermercati frutta e verdura freschi. C’è una narrazione discriminatoria molto potente. E poi si sa: ad alcuni politici fa comodo continuare a pensare che tutti i giorni ci sia da parlare dell’immigrazione come un’emergenza…