Dagli Eurobond a Orbàn: L’Europa deve affrontare la peggiore crisi dai tempi del 2008. Riuscirà a rimanere compatta?
Qualche giorno fa stavo guardando questa foto postata dallo street artist italiano Salvatore Benintende, in arte Tvboy. L’immagine, raffigurante i quattro volti più importanti della scena politica europea, è stata presa d’esempio da numerosi quotidiani sparsi per il mondo, per illustrare la condizione di instabilità che l’Unione Europea sta attraversando. La pressione generata dalla pandemia, infatti, sta innescando un effetto centrifuga tra i vari Stati membri. Una ferita difficile da ricucire, che si era già aperta con la crisi del debito del 2010. A distanza di un decennio, l’Europa torna ad essere nuovamente una polveriera, in grado di sbilanciare lo scenario internazionale.
Gli Eurobond
Facciamo chiarezza. Dopo quasi un mese di quarantena, le principali economie europee hanno varato ingenti misure economiche. Mentre la Germania ha smosso più denaro, annunciando un pacchetto di 756 miliardi di euro, Francia e Spagna si sono assestate rispettivamente su 350 e 131 miliardi. Il governo italiano ha per adesso attuato un piano di 50 miliardi, di cui 25 già stanziati e 25 da stanziare con il prossimo decreto. In futuro, comunque, si prevedono finanziamenti che arriveranno fino a 350 miliardi.
Il motivo della differenza nelle cifre è strutturale. L’Italia si porta sulle spalle un debito pubblico vicino ai 2.500 miliardi di euro. Aggiungendo che, molto probabilmente, concluderà il 2020 con un deficit del 6% e un debito del 150% rispetto al PIL, è ovvio come varare in debito ampie misure economiche sia possibile solo per chi ha i conti in ordine. In ogni caso, quelle tedesche e quelle italiane sono cifre non dissimili se considerate in rapporto al PIL dei due paesi.

E qui arriviamo al nodo centrale della vicenda, gli Eurobond. Emettere titoli di debito comuni rappresenta una soluzione tanto semplice da comprendere quanto difficile da accettare. Titoli che verrebbero emessi sotto la garanzia dell’intera Eurozona, mettendo ciascun governo nazionale nella condizione di restituire il prestito a tassi di interesse molto più bassi – dal momento che più un paese è indebitato, più rischia di essere insolvente. E più rischia di essere insolvente, più aumentano i tassi di interesse sul suo debito pubblico.
Inoltre, i fondi ottenuti tramite gli Eurobond verrebbero erogati in proporzione ai paesi che ne hanno più bisogno, in primis il nostro. Non solo si tratta di una proposta che innescherebbe una maggiore integrazione economico-finanziaria in seno all’Unione europea. Il varo di questa misura finanziaria permetterebbe anche di condividerne i costi, evitando l’accelerazione di una crisi probabilmente senza precedenti. Una nuova crisi economica, infatti, spazzerebbe via per sempre l’Europa unita che conosciamo. Sarebbe la goccia di troppo, capace di far collassare definitivamente il sogno europeo.

Un’Europa divisa
La prospettiva degli Eurobond, proposta da Conte, è stata abbracciata da ben 9 paesi europei. Tra questi, la Francia di Macron, invaso dalla paranoia di perdere ancora più consensi dopo il trauma dei gilets jaunes, e la Spagna di Sánchez, immersa in un grave periodo di instabilità politica. Gli unici ad essersi opposti con energia sono stati l’Austria, la Finlandia, l’Olanda e, ovviamente, la Germania. La presa di posizione della Merkel, che sembra stia guadagnando qualche punto percentuale nei sondaggi, è tradizionalmente figlia dell’opportunistico “ping pong” che Berlino fa da anni tra Europa e Russia. E un tale atteggiamento non può che essere sfruttato dallo stesso Macron, il quale, preso a braccetto il premier italiano, si fa promotore carismatico di un’Europa più unita.
In Italia però, domina come sempre lo sciacallaggio. Chi si lamenta che la misura voluta dal governo non sia all’altezza di quelle messe in atto dagli altri paesi europei, forse trascura i 100 miliardi di evasione fiscale che incatenano la nostra economia. Qualcosa paragonabile al 20% delle entrate tributarie percepite dallo Stato nel 2019. O forse dovrebbe ricordarsi dei 37 miliardi tagliati alla sanità pubblica negli ultimi dieci anni e del fallimentare federalismo sanitario che osteggia una gestione armoniosa dell’emergenza in tutto il paese.
La risposta dell’Unione europea
I sovranisti ignorano persino lo stesso funzionamento della complessa macchina europea. L’ulteriore immissione dei famosi 870 miliardi da parte della Banca centrale europea è stata predisposta sulla scia di Mario Draghi. La politica monetaria del guru della Bce, infatti, ha permesso di ossigenare le varie economie comunitarie, offrendo nel contempo liquidità in favore di banche, famiglie e imprese a condizioni estremamente vantaggiose, evitando fallimenti a catena. A ciò si aggiunge la sospensione del Patto di stabilità da parte della Commissione. Un assist prezioso per combattere la crisi economica post Covid-19, scavalcando i rigidi vincoli sul debito di Maastricht.
Puntare il dito contro le istituzioni europee è sempre stato il cavallo di battaglia dell’euroscetticismo. Ciò che i partiti euroscettici non sanno – o fanno finta di non sapere – è lo sforzo congiunto con cui ogni singolo organismo dell’Unione sta affrontando la crisi. Si pensi, ad esempio, alla questione degli aiuti di Stato. Da un rigido controllo si è passati a un flessibile allentamento, per permettere agli Stati membri di attuare una politica di sussidi a diretto beneficio delle piccole e medie imprese.
Ma non solo. La Commissione europea è riuscita a ricavare 65 miliardi dalle poche risorse rimaste dal bilancio 2014-2020, istituendo il Coronavirus Response Investment Initiative. Si tratta di fondi destinati al sostegno della disoccupazione e dello straordinario lavoro che stanno svolgendo gli operatori socio-sanitari sparsi per l’Europa. Aggiungiamo poi che il bilancio europeo per il 2019 prevedeva in totale 314 miliardi di euro tra impegni e pagamenti effettivi, in crescita rispetto all’anno precedente. O che oltre il 76% del bilancio pluriennale viene gestito insieme alle amministrazioni nazionali, a sostegno dell’agricoltura, della pesca o delle regioni meno sviluppate. Ne deriva come incolpare le istituzioni comunitarie corrisponda a nascondere la testa sotto la sabbia.

Mancanza di visione
L’unico errore imputabile alla Commissione è quello di voler attivare il Meccanismo europeo di stabilità. Certo, è chiaro come Ursula Von Der Leyen sia fortemente legata agli ambienti politici della Merkel, tanto da invocare un sistema obsoleto come il Mes. Tuttavia, attingere a un fondo di 700 miliardi di euro, senza riformarne le dure condizioni di restituzione, non significa altro che dare corda all’euroscetticismo. Già in passato l’uso del Mes ha comportato un peggioramento delle relazioni tra i paesi membri. Ricadere nello stesso errore alimenterebbe solamente il focolaio del nazionalismo. In una lettera pubblicata su Repubblica, la presidente della Commissione Europea Von Der Layen annuncia la creazione di una cassa di integrazione europea. Probabilmente, si dovrà aspettare il prossimo 7 aprile per parlare nel dettaglio di questa o altre misure stanziate, ma la sua lettera non può che farci ben sperare.
Anche perchè il problema risiede proprio nel crescente cinismo degli egoismi nazionali, la tendenza a scaricare il barile a danno del proprio alleato. Il frutto di una lacuna nel processo di integrazione dei vari Stati europei, sedotti dall’incapacità di fronteggiare la Grande depressione del 2008, a un anno dalla firma dei trattati di Lisbona. Il problema è dato da una mancanza di visione. Il non volersi accorgere di come trent’anni di spazio Schengen abbiano stretto le economie nazionali a tal punto che il collasso di una porterà inevitabilmente al collasso di tutte le altre. Ogni crisi produce strappi del tessuto europeo e ogni strappo alimenta l’effetto centrifuga, fino a un punto di non ritorno. Come sta accadendo in Ungheria.
Pieni poteri all’arciduca Orbàn
L’attuale primo ministro dell’Ungheria rappresenta l’esempio lampante dell’uomo forte accecato dal potere. Partito da giovane comunista, Viktor Orbàn approda per la prima volta alla presidenza del governo nel 1998. Vi rimarrà fino al 2002, dopo aver tentato di attuare una sostanziale riforma dell’Assemblea nazionale, ovviamente incostituzionale. Le sue tendenze autoritarie si riflettono nuovamente a partire dal 2010, anno a partire dal quale continuerà a stare al governo, fino ai giorni nostri.
Durante questo lungo periodo, Orbàn stringe la morsa sui mass media ungheresi e sottopone la magistratura a un rigido controllo governativo. Ma non solo. Viene approvata una riforma costituzionale incompatibile con la libertà di professione religiosa, materia nella quale lo Stato di diritto, per definizione, deve rimanere imparziale. Budapest mette persino i bastoni tra le ruote all’Europa nella gestione dei flussi migratori, per poi lamentarsi del fatto che in Europa nessuno voglia spartirsi i migranti.

Orbàn infine, il 30 marzo scorso, riesce a ottenere i tanto desiderati pieni poteri, dopo averli reclamati per anni. Con la scusa di gestire in maniera più efficiente “l’emergenza sanitaria che sta attraversando il paese” (poco più di 500 casi), il nuovo arciduca d’Ungheria si conferisce poteri straordinari. Ora ha facoltà di emanare qualsiasi decreto, serrare il Parlamento, sospendere le elezioni e modificare o abolire qualsiasi legge. Sarà lui a decidere quando finirà lo stato di emergenza. Cioè mai. Squillino le trombe, l’Ungheria sta diventando la prima dittatura in Europa.
Una nuova crisi?
L’Unione Europea si presenta nuovamente a un bivio. Una volta imboccata una strada, sarà difficile tornare indietro. Da una parte, il passivismo di fronte alla deriva autoritaria ungherese rischia di acuire i singoli nazionalismi degli altri Stati europei. Dall’altra, la possibilità di trovare almeno un compromesso sul tema degli Eurobond dopo il fallimento del Consiglio straordinario (26 marzo), potrebbe essere un tentativo cruciale per riaccendere la cooperazione nel quadro dell’incombente crisi economica.
Secondo l’Ocse, per ogni mese di quarantena l’Italia potrebbe vedere una flessione del 2% del Pil. JP Morgan invece calcola che nei prossimi sei mesi l’intera Eurozona ne vedrà una contrazione tra il 15 e il 22%. Le frontiere neutralizzate dagli accordi di Schengen sono state temporaneamente ristabilite e le principali potenze mondiali, tra cui spiccano Russia e Cina, non aspettano altro che uno sfaldamento dell’Europa per metterci le mani. In assenza di una coscienza europea, l’alternativa risiede in un’antica massima: divide et impera.