Restare ad un metro di distanza l’uno dall’altro potrebbe sembrare la cosa più semplice del mondo. Lo è. I primi giorni. Poi arriva il diciannovesimo giorno della quarantena in cui siamo costretti a vivere e spalma il tempo e lo spazio in dimensioni che prima non conoscevamo. Dopo poco non lo sai più, che significa un metro?
In questi giorni, un metro è la dimensione sociale in cui siamo costretti a vivere, non si sa bene fino a quando. Il nostro spazio salvavita è ridotto ad un cerchio disegnato col compasso e riuscire a restare fermi al centro è diventato l’obiettivo di un gioco a premi. Il premio, se mai lo raggiungeremo, è la ripresa normale e spontanea della nostra quotidianità.
Io non ci avevo mai fatto caso a quanto è difficile ridurre o allargare le distanze di un approccio. Da quando ho 19 anni vivo lontana centinaia di chilometri dalla mia famiglia, per un po’ di mezzo ci sono state addirittura le Alpi, per un altro po’ l’Oceano.
Ho vissuto amori a distanza, mantenuto amicizie sparse nelle parti più svariate del mondo, ho perfino trovato il modo di vedere periodicamente mia nonna – anni 88 – in videochiamata, ai tempi in cui ci separavano 6 ore di fusorario. Qualsiasi distanza fisica è sopportabile, finché è solo fisica.
Pensavo.
Ci si è messa la quarantena a farmi realizzare che quella distanza è sopportabile solo perché riesci in qualche modo a colmarla, grazie al fatto di incontrare centinaia di persone (anche sconosciute) ogni giorno. Esci di casa e vedi individui attorno a te vivere una vita che non ti appartiene e che forse ti interessa conoscere. In quel momento sono in metropolitana nel tuo stesso vagone; li guardi e fingi di non volerne sapere della loro vita. A volte la tentazione di farti i fatti loro è insopportabile. Mi diverto, mi divertivo, nel cercare di capire chi sono quelle persone in metropolitana che incontro, dove vanno, cosa vogliono. Che libri leggono? Quell’autore lo conosco anch’io. Foucault, anche a me piace Foucault.
Mi è capitato di vedere sconosciuti piangere con la testa poggiata al finestrino chiuso, mentre guardavano il muro correre e poi fermarsi, correre e poi fermarsi. Ho ascoltato conversazioni al telefono perché sarebbe stato inevitabile ascoltarle. Ho visto ragazzi tenersi per mano e poi litigare. Ultras intonare cori mentre aspettavano di arrivare allo stadio. Bambini che infastidivano il papà chiedendogli di prenderli in braccio. A volte il tragitto dal lavoro a casa mi è sembrato lunghissimo, ma in qualche modo condividevo la sensazione di vivere una giornata senza fine con qualcun altro. Non so se in quel momento mi facesse sentire meglio, sicuramente mi sentivo meno sola.
Da quasi un mese non incontro sconosciuti in metropolitana. Non esco di casa se non per fare la spesa e quando lo faccio non ho voglia di incontrare nessuno. Sto attenta a non uscire dal centro del mio cerchio disegnato col compasso, indosso guanti, sfuggo agli sguardi della gente perché metti caso incontrassi lo sguardo di qualcuno, non avrei voglia di interessarmi alla sua vita. Alla cassa evito il contatto con chi mi porge lo scontrino. Torno a casa a testa bassa, il più velocemente possibile.
Non è paura, è quel metro che non è più solo un metro.
Sono giorni che ho in testa Schopenhauer e il suo “dilemma del porcospino”. Con il freddo dell’inverno, i porcospini hanno l’istinto di avvicinarsi per potersi scaldare. Gli aculei sulle loro schiene gli rendono impossibile tollerare il dolore provocato dalla vicinanza, così si allontanano di nuovo. Il freddo li costringe poi ad avvicinarsi ancora, il dolore ad allontanarsi e così via finché non trovano la giusta distanza.
Schopenhauer utilizzava il suo dilemma per spiegare l’imprescindibile necessità di ogni individuo di vivere in un contesto sociale e il bisogno di cortesia e buone maniere per trovare la giusta distanza che renda possibile qualsiasi tipo di rapporto. In un ecosistema simile, chi soffre meno il freddo riesce a stare fuori dalle logiche imposte dalla società e a vivere la sua vita in solitudine e autonomia.
Noi siamo nati nell’era della globalizzazione. Siamo la prova che abbiamo trovato la giusta distanza per vivere non solo in società, ma in una società interconnessa. E nonostante i suoi mille problemi, la nostra società ci ha reso la vita più semplice, se non addirittura più sopportabile.
C’è un filo che stringe 7 miliardi di persone in una morsa e la storia ci ha già raccontato che sarà sufficiente l’inciampo di una sola di quelle persone per dare il via ad un effetto domino difficile da fermare. In un attimo una crisi nazionale diventa una crisi globale. E se la crisi del Covid-19 non è la prima ad aver scatenato un effetto domino, di sicuro è la prima che non abbiamo saputo affrontare. La globalizzazione ci ha regalato la convinzione di poter spiegare e trovare una soluzione a tutto e allo stesso modo ce l’ha tolta, mettendo a rischio l’idea che ognuno di noi ha della propria vita. Ha reso la distanza che aveva contribuito a rendere sopportabile, insopportabile.
Per dirla come direbbe Schopenhauer, c’è stato un momento in cui abbiamo avuto perfino troppo caldo, ora d’un tratto è freddo.
Allora la mattina mi sveglio e mi chiedo: quanto freddo abbiamo, oggi?
Soprattutto, quanto freddo avremo?
Qualsiasi piattaforma mediatica non fa che ripeterci che non siamo soli. Ogni giorno nascono hashtag, dirette streaming, campagne social, iniziative di qualsiasi tipo con l’intento di dirci che un giorno la nostra vita riprenderà così come l’abbiamo lasciata un mese fa. Con le nostre corse in metropolitana, il caffè con i colleghi, gli aperitivi in centro, gli abbracci di papà, le strette di mano in segno di cordialità, le pacche sulle spalle e i pizzicotti sulle guance.
La verità è che noi al freddo che ci ha travolto ci stiamo abituando. Non solo, il calore che cercavamo nel proseguimento spontaneo della nostra quotidianità sta iniziando a terrorizzarci. Consciamente o non.
Nella visione di Schopenhauer, arriveremo alla fine di questi giorni di quarantena capaci di resistere alle temperature più basse. Prima di ricominciare a cercare calore, a cercarsi, ci vorrà del tempo e quel tempo ci sembrerà infinito.
Tornerò in metropolitana e non so se avrò voglia che gli stessi sconosciuti che incontravo ogni mattina mi accompagnino a lavoro. Non so se mi interesserà sapere che libri leggono, vederli piangere poggiati al finestrino, ascoltarli parlare al telefono, pensare a cosa fanno e dove vanno.
Per un po’ eviterò i loro sguardi, eviterò di toccarli. Non stringerò la mano in segno di cordialità e probabilmente avrò paura di abbracciare papà, nell’istinto di proteggerlo.
Dovrò convincermi che la mia capacità di sopportazione della distanza è un’illusione dovuta alla circostanza. Dovrò disabituarmi alla solitudine e ricominciare ad odiare le abitudini. Dovrò imparare a sopportare il dolore degli aculei dei porcospini nonostante io sia nata in una società ad evoluzione compiuta, piena di regole e logiche.
Sì, è vero, andrà tutto bene. Ma non sarà facile. Ci hanno chiesto di restare ad un metro di distanza l’uno dall’altro, quel metro non è più solo un metro.