Prima di tutto una rigorosa divisione spaziale in settori: chiusura, beninteso, della città e del territorio agricolo circostante […]. Il sindaco va di persona a chiudere, dall’esterno, la porta di ogni casa […]. Ogni famiglia avrà fatto le sue provviste.
Questa non è una delle tante cronache da Codogno, e nemmeno da Vo’ Euganeo. A scrivere non è nemmeno un cronista. La penna è quella di un filosofo. Anzi, del filosofo. Il suo nome è Paul-Michel Foucault e nel 1976 è ormai un docente affermato. A Parigi lo chiamano “maître à penser“, che significa “guida morale” in italiano. Lui, che di tutta la morale fu un critico, è l’intellettuale della contestazione studentesca, del Sessantotto francese.
In questo passaggio di Sorvegliare e punire (Einaudi, 1976), una delle sue opere fondamentali, Foucault ragiona sui meccanismi di controllo e disciplina della città appestata. Il filosofo francese riprende dagli Archives militaire de Vincennes uno dei tanti regolamenti che nel XVI secolo erano stati stilati per affrontare l’epidemia di peste nelle città francesi.

Qui la disciplina è ferrea. Tutti sono schedati, le restrizioni sono importanti. Nessuno esce di casa. Al massimo si va al supermercato per fare provviste. A quel tempo solo di cibo, oggi anche di disinfettante. Quello di Foucault è un racconto ansiogeno e disturbante. Con i dovuti accorgimenti, rileggendolo oggi, pare quasi che quel filosofo eccentrico avesse predetto tutto. Anche l’isteria collettiva.
Perché, come affermava, a un certo punto:
Il rapporto di ciascun individuo con la propria malattia e con la propria morte, passa per le istanze del potere, la registrazione che esse ne fanno, le decisioni che esse prendono.
La narrazione mediatica del Coronavirus
Per Foucault, l’epidemia corrisponde al caos, al disordine. Attorno a esso si costruiscono una serie di discorsi, racconti, articoli, reportage e non solo. Da giorni i giornali danno conto del dilagare del Coronavirus. Le analisi degli esperti e dei medici si alternano al racconto della vita delle persone, malate e no. A essi si aggiungono i moniti delle autorità politiche. I giornali arrivano a parlare di “Trincea contro il virus“. Attorno al virus si moltiplicano una serie di saperi su ciascun cittadino.
Viene stabilito il ruolo di tutti gli abitanti presenti in città, uno per uno: vi si riporta il nome, l’età, il sesso, senza eccezione di condizione.
Dei malati oggi sappiamo più o meno tutto. E ciascuno assume un ruolo. Ed ecco «Il ristoratore di Rimini ammalato, di ritorno dalla Romania», «il podista 38enne di Codogno, il paziente 1», «la 47enne di Vo’ Euganeo», per arrivare infine ai cinesi che per il governatore del Veneto mangerebbero topi vivi. Come direbbe Foucault, il racconto del virus nei suoi minimi dettagli, unito alle sue banalizzazioni e generalizzazioni, genera un vero e proprio «sapere sui soggetti». E non esiste relazione di sapere senza una relazione di potere. Il racconto del virus, se non il virus stesso, si trasformano quindi in «dispositivi di potere». Per Foucault, il dispositivo.
È un insieme assolutamente eterogeneo che implica discorsi, istituzioni, strutture architettoniche decisioni regolative, leggi […].
Il dilagare delle dicerie
I discorsi attorno al virus si impongono sui soggetti come strumenti di potere e controllo su di essi. Ed ecco il panico, la limitazione dei rapporti umani. Tutti corrono a comprare mascherine, nonostante queste servano solo agli operatori sanitari o ai veri ammalati; tutti corrono a comprare viveri e fanno provviste, ma nessuna carestia è stata annunciata; i ristoranti cinesi si svuotano, nonostante non ci sia nessuna relazione tra cibo e trasmissione del virus. Molti cittadini asiatici vengono denigrati ed esclusi senza motivo, come il caso del ventiseienne cinese preso a bottigliate pochi giorni fa nel vicentino. Questo è l’immenso (e pericoloso) potere dei discorsi e del sapere, vero o presunto, che ciascuno di noi mette in circolo parlando della malattia. Ciascuno assume il proprio ruolo: il medico, l’esperto, il politico, il malato, il fantomatico “paziente 0”. O addirittura “l’untore“.

Forse, rileggere Foucault e rendersi conto di questi processi è la prima strada per liberarsi dalla paura e dalla psicosi. E magari affrontare meglio una situazione comunque complicata. Alla fine, di fronte a tutto ciò, resterà solo quanto detto dalla virologa Maria Rita Gismondo:
C’è un bombardamento di notizie che fomentano la paura, sembra che siamo in guerra ma non lo siamo.