Valentina, l’architetta dello spazio: ‘costruiremo case sulla Luna’.
Così titolava un articolo del Corriere della Sera il 24 gennaio 2020. Probabilmente qualcuno di voi lo avrà già notato, altri magari si staranno chiedendo cosa ci sia di strano. La risposta sta in una sola parola: architetta. Questo singolo termine raccoglie al suo interno molto più del suo significato evidente, diventando il simbolo delle speranze e delle lotte verso una maggiore inclusività della lingua. Infatti, declinare al femminile i titoli professionali permetterebbe alle donne di uscire dal cono d’ombra creato dal maschile generico, che spesso fagocita e nasconde, nella sua pretesa di universalità e neutralità, la presenza e il ruolo delle donne.
Il rapporto tra genere e lingua
In quale contesto si inserisce la questione del femminile delle professioni? Occorre fare un passo indietro e comprendere che lingua e genere sono connessi su più livelli e uno degli aspetti in cui è più evidente questo fenomeno è quello dei “femminili professionali”. I femminili nell’ambito delle professioni si rendono sempre più necessari per combattere una visione della “figura femminile spesso svilita dall’uso di un linguaggio stereotipato [che] ne dà un’immagine negativa, o quantomeno subalterna rispetto all’uomo”. Per questo motivo hanno iniziato a svilupparsi degli studi sulla relazione tra genere e lingua, per analizzare in maniera scientifica i risvolti sociali e culturali che il loro rapporto comporta.

Cosa si intende con genere?
A partire dalla fine del XX secolo, il genere serve a indicare “il sesso come costruzione sociale e storica all’interno di relazioni di potere”. Nella lingua, può avere tre categorizzazioni:
–marcatura grammaticale di genere: nelle lingue in cui il genere è marcato con mezzi morfologici, forme pronominali e classificatori, ovvero quello che viene definito come genere grammaticale e può essere maschile, femminile o, in alcune lingue, neutro. L’attribuzione del genere a un nome risponde a criteri sia formali sia di significato.
–genere lessicale: in questo caso il sesso del referente comporta una differenza lessicale (come per esempio marito e moglie) oppure, anche qualora fosse marcata morfologicamente, la parola risulta neutra rispetto al sesso (es. persona).
–genere sociale: si basa sugli stereotipi e sulle aspettative che una società ha nei confronti dei ruoli maschili e femminili. Pur essendo strettamente collegato alla realtà, risulta essere rinforzato e costruito attraverso degli input esterni.
La lingua e la sua influenza sui parlanti
Si può evincere, quindi, che la lingua non sia uno strumento totalmente neutrale, ma anzi che possa influenzare anche il modo di pensare dei parlanti. La linguista Carla Bazzanella afferma che “le ideologie organizzano le rappresentazioni sociali e sottintendono dinamiche di potere […] trovando forma negli stereotipi e nella lingua”³. Possiamo quindi dedurre che, seppur non sempre in maniera esplicita, ogni sistema di potere si basi su delle dinamiche che tendono a condizionare la lingua al fine di preservare le dinamiche di potere stesso. Nella nostra lingua, e di conseguenza anche nella nostra società, si possono notare due fenomeni principali: una generale priorità per il maschile generico o inclusivo, che di inclusivo ha poco o nulla, e una conseguente asimmetria uomo/donna, lasciando spazio a espressioni violente e di sopraffazione che trovano la loro espressione anche nella lingua.[
Il Genere grammaticale: come si manifesta?
Il genere, per i soggetti animati, non può essere considerato una semplice categoria grammaticale che regoli meccanicamente le concordanze. Si tratta, a tutti gli effetti, di una categoria semantica che assume un profondo simbolismo nella lingua. Questo ci porta a considerare due elementi presenti nella lingua: l’androcentrismo e la servitù grammaticale. Con il primo termine si fa riferimento all’uso, sia per gli uomini che per le donne, del maschile generico. Un esempio può essere la frase seguente: “alcuni esperti del settore si sono espressi favorevolmente”. In questo caso è evidente come non sia chiaro se il parlante stia descrivendo ciò che avviene all’interno di un gruppo di uomini e donne o in un gruppo di soli uomini, creando appunto una sorta di oscuramento della figura femminile.
Con il secondo termine si fa riferimento, invece, al caso dell’accordo: nei casi in cui siano presenti parole maschili e femminili, questo viene fatto al maschile. Un buon esempio è “bambini e bambine erano impegnati a giocare al parco”. In questa frase si può notare che, nonostante la presenza femminile sia esplicita (bambine), essa venga però “asservita” al maschile, accordando le parole successive al maschile.
Il femminile professionale: come si forma
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Per comprendere meglio questo argomento, è necessario prima spiegare come si forma il femminile nella lingua italiana. Come si accennava prima, per gli oggetti inanimati o per i concetti astratti il genere è totalmente disconnesso dalle caratteristiche che denota. Ad esempio, il sostantivo “albero” è di genere maschile, ma tale appartenenza è totalmente arbitraria e non ha quindi nessun collegamento con l’oggetto di cui si parla. Nel caso degli esseri animati, invece, il genere grammaticale combacia solitamente con il genere semantico, ovvero quello dell’animale o persona di cui si parla.
Dal punto di vista della formazione del maschile e del femminile, possiamo distinguere quattro tipologie di sostantivi in base al genere:
-fisso, in cui si usano parole diverse per indicare il maschile e il femminile (es. fratello/sorella)
-promiscuo, ovvero le parole in cui deve essere aggiunta la specificazione maschio/femmina, spesso utilizzato per designare animali (es. tigre maschio)
-mobile, ovvero quelle parole che cambiano genere cambiando la desinenza della parola (es. infermiere/infermiera)
-comune, ovvero le parole che sono uguali sia al maschile che al femminile e la sola cosa che cambia è l’articolo (es. il cliente/la cliente).

Una situazione complessa
Ora che abbiamo gli strumenti per comprendere a grandi linee come si distinguono queste categorie, possiamo comprendere meglio il modo in cui si declinano al femminile i sostantivi in italiano. La questione, tuttavia, è più complessa di come appare. Infatti le forme femminili di alcune professioni hanno generato un acceso dibattito, che si è sviluppato ormai da più di trent’anni, anche se solo nell’ultimo periodo ha ottenuto particolare visibilità. La formazione di queste “nuove” parole ha quindi permesso da un lato di interrogarsi sulla lingua e dall’altro di far emergere i rapporti che intercorrono fra lingua e società, rivelando come, ancora una volta, le parole siano importanti e cariche di molti significati, non sono puramente “linguistici” ma spesso politici e sociali.
Infatti, fino a tempi (purtroppo) recenti, per alcune occupazioni non esisteva il femminile proprio perché alle donne non era permesso svolgere alcune professioni. Basti pensare, ad esempio, che le prime donne sono entrate a far parte della Magistratura nel 1965. Per comprendere ulteriormente quanto sia importante in questo caso l’uso di termini come magistrata o la giudice, è sufficiente osservare i dati pubblicati nel 2018 dal CSM, che mostrano una maggiore presenza delle donne rispetto agli uomini nella magistratura.
Inoltre, la questione sembra essere di maggiore rilevanza per le posizioni “apicali”, ovvero i lavori più prestigiosi, di cui un ottimo esempio possono essere avvocata, ministra o sindaca. Si tende spesso a ritenere queste forme, pur essendo previste dal sistema, non necessarie, proprio perché fino ad adesso è sempre stato usato il termine maschile.
L’avversione all’uso del femminile: l’iniziativa del 1987…
Nella lingua italiana, la donna, e il suo ruolo nella società, risulta spesso essere nascosta all’interno del genere grammaticale maschile, che è utilizzato in maniera indistinta sia per gli uomini che per le donne nella forma plurale. Nel nostro paese assumono particolare rilevanza due iniziative: una del 1987 e l’altra del 2007, con due finalità diverse.
Le “Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana” di Alma Sabatini, denunciano le forme linguistiche sessiste e suggeriscono alcune proposte per un utilizzo più inclusivo della lingua. Tra queste, può essere utile ricordare le seguenti:
-evitare il maschile generico
-rivolgersi, sia agli uomini che alle donne, con il loro titolo professionale e non attraverso il loro status civile (es. dottor Rossi/dottoressa Verdi, e non dottor Rossi/signora Verdi)
-declinare al femminile i sostantivi utilizzati per designare una professione.

Inoltre, nel documento del 1987, veniva sottolineato come all’epoca fossero evidenziabili alcuni problemi, come nel caso dei documenti burocratici. Era infatti consuetudine utilizzare nei documenti il maschile non marcato. Inoltre, il femminile per le cariche ricoperte da donne era scarsamente utilizzato. Nel documento del 1987 si metteva in risalto poi come fosse poco frequente l’uso dello splitting come il/la sottoscritto/a.
… e la Direttiva del 2007?
La Direttiva del 2007 “Misure per attuare parità e pari opportunità tra uomini e donne nelle amministrazioni pubbliche” rivolge invece la raccomandazione, nonché una particolare attenzione, all’uso in ogni documento di lavoro di un linguaggio che non discrimini. Propone inoltre l’avviamento di percorsi formativi sulla cultura di genere, affinché si verifichino i presupposti per attuare, a tutti gli effetti, una politica che punti a ottenere pari opportunità.
Nonostante tutti questi sforzi al fine di ottenere un riconoscimento di maggior rilievo nella società, si possono ancora riscontrare molte resistenze verso l’adattamento della lingua alla nuova realtà sociale in cui viviamo. I motivi che vengono addotti dai detrattori dell’uso del femminile anche negli ambiti professionali, e a cui si risponderà ampiamente più avanti, sono essenzialmente tre:
–Incertezza nell’uso di forme femminili nuove rispetto alle forme tradizionali maschili
–Presunta “bruttezza” delle nuove forme
-Convinzione che il maschile sia utilizzabile anche in riferimento alle donne.
Quindi, usando le parole di Cecilia Robustelli, si può affermare che:
“Le resistenze all’uso del genere grammaticale femminile per molti titoli professionali o ruoli istituzionali ricoperti da donne sembrano poggiare su ragioni di tipo linguistico, ma in realtà sono, celatamente, di tipo culturale; mentre le ragioni di chi lo sostiene sono apertamente culturali e, al tempo stesso, fondatamente linguistiche”[.
Un’avversione insensata: perché i femminili professionali sono utili
Come si è visto, ci sono molteplici ragioni per utilizzare i femminili professionali. Tuttavia, ci sono ancora molte resistenze verso il loro utilizzo.
Da quanto esposto finora, si può evincere come le ragioni dei detrattori siano più di tipo politico-sociale, che strettamente linguistiche. Infatti, nella maggior parte dei casi, coloro che si oppongono fanno riferimento alla presunta bruttezza o “spigolosità” delle nuove parole. Mentre parole come avvocata o sindaca stanno diventando lentamente di uso comune, ci sono altri termini che trovano ancora alcune resistenze, specialmente nel parlato. Alcuni esempi possono essere parole come architetta, muratrice o medica.
La presunta bruttezza a cui si fa spesso riferimento è da considerarsi “normale” nel momento in cui una parola “nuova”, o quantomeno mai utilizzata prima, compare sulla scena. Tuttavia, occorre ricordare che le parole non sono utilizzate per la loro bellezza, che è soggettiva, bensì per la loro utilità nella lingua, determinata sia dai parlanti che dai mass media, che possono contribuire alla diffusione di un determinato termine.
Alcune incertezze (superabili) sui femminili
Un’altra questione piuttosto diffusa è quella dell’incertezza sull’uso di alcune parole al femminile, o meglio, su come volgere al femminile alcuni termini. In questi casi, la perplessità è facilmente superabile: è infatti sufficiente reperire un dizionario sufficientemente aggiornato per avere a portata di mano la soluzione a tutti i possibili dubbi.

L’importanza fondamentale dei femminili professionali si trova nel riconoscimento di un ruolo di primo piano delle donne nella società, permettendo loro di uscire dal cono d’ombra generato dal maschile. Questo si rende sempre più importante in una società in rapido mutamento e che vede, finalmente, sempre più donne occupare ruoli ai vertici della società.
Una riflessione sulla normalizzazione dei femminili per tutte le professioni tende a sottolineare come, sebbene si siano stati fatti molti passi avanti nell’uso del femminile per le posizioni più importanti, sia ancora necessario normalizzare l’uso dei femminili per quelle professioni che sono spesso considerate come “meno rilevanti”.
Quindi, complessivamente, si può concludere, usando le parole di Cecilia Robustelli, che un “[…] uso più consapevole della lingua contribuisce a una più adeguata rappresentazione pubblica del ruolo della donna nella società. […] è indispensabile che alle donne sia riconosciuto pienamente il loro ruolo perché possano così far parte a pieno titolo del mondo lavorativo e partecipare ai processi decisionali del paese”[. In ultima istanza si tratta quindi di una questione profondamente sociale e politica, essendo strettamente collegata al funzionamento della società nel suo complesso.
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