E’ sempre più comune considerare la salute un bene pubblico essenziale e quindi criticare le privatizzazioni che non garantiscono un accesso generalizzato alle cure mediche, così come i modelli dirigisti che pure hanno sviluppato al loro interno enclavi di efficienza confinanti con deserti sanitari.
Non è stato sempre così: la percezione della salute bene pubblico è una conquista recente che segue l’affermazione dei diritti universali dell’uomo. L’obiettivo di questo articolo è comparare aree e periodi diversi per mostrare come l’approccio politico al tema sanitario sia cambiato nel corso del tempo per poi terminare con gli aspetti politici nella gestione della crisi cinese.
Anarchia Sanitaria: Peste e Colera
I casi presi in esame sono diversi tra loro: nell’Europa medievale e moderna colpita dalla peste del ‘300 e del ‘600, la spiegazione più diffusa dell’epidemia faceva appello alla religione o alla superstizione.
Pur cercando di arginare l’epidemia di peste chiudendo i canali commerciali tra Stati e regioni, è prevalsa spesso la superstizione che ha trasformato un male organico in un castigo divino e sostituito l’assenza di cure con la ricerca di un capro espiatorio da offrire a Dio per la redenzione dei peccati.
Nel secondo caso ci soffermiamo sulle modalità di diffusione del Colera in Africa negli anni settanta: l’assenza di un adeguato processo di policy making ha lascito libera diffusione alla malattia.
Europa: tra mercantilismo e religione
Dopo lo sgomento iniziale, la risposta europea alla peste trecentesca è sfociata spesso in movimenti di purificazione dell’anima, la cui violenza si è diretta verso le comunità tradizionalmente emarginate.
Ad un secolo dalla fine del Medioevo, con i sovrani inglesi e francesi che rafforzano il proprio potere cominciando ad attribuire direttamente alla divinità la fonte della propria autorità, i ceti più poveri dirigono la propria rabbia soprattutto verso gli ebrei, già condannati a fasi alterne dai sovrani e dalla Chiesa.
È a Tolone per la prima volta, tra il 13 e il 14 aprile 1348, che una quarantina di ebrei vengono riconosciuti responsabili della pandemia e trucidati senza esitazione. Azioni di questo tipo si moltiplicano poi in Spagna come in Francia, dove gli ebrei vengono accusati di essere untori e persone malvagie. Nell’Europa Orientale l’onda antisemita è ancora più forte e colpisce circa un migliaio di persone in Polonia. Sembra invece che in Italia, piuttosto indietro nel processo di consolidamento assolutistico del potere, il tradizionale stereotipo dell’ebreo-mercante abbia portato ad una condanna degli episodi descritti da parte di una classe mercantile indipendente e in ascesa, di cui lascia testimonianza la letteratura del periodo.
Tre secoli dopo, quando il flagello torna in Italia e l’assenza di cure adeguate influisce sulle decisioni politiche del tempo, il cui esito si è rivelato disastroso. Nel ducato estense per esempio, le autorità mediche individuarono la presenza del morbo dal 1629 e i provvedimenti di chiusura dei confini sembravano rispondere in modo adeguato all’emergenza. L’assenza di conoscenze mediche, tuttavia, ha portato gli estensi (una volta debellata l’epidemia), a ritenere innocuo il rientro dei cittadini rimasti fuori il ducato e il ripristino del commercio con gli Stati vicini. Il risultato fu un risveglio dell’epidemia entro un mese dal provvedimento ducale e un declino demografico del 40% ad un anno dal secondo contagio.

Il colera in Guinea dal 1970
In molti Paesi africani, l’assenza di un sistema sanitario adeguato è tuttora motivo di preoccupazione, L’OMS ha dichiarato la protezione di questo continente dalla diffusione del Coronavirus un obiettivo fondamentale, perché l’impatto potrebbe avere un esito difficilmente controllabile. L’assenza di strutture statali adeguate, le condizioni climatiche e socioeconomiche dei gruppi coinvolti hanno mostrato a più riprese la devastazione generata da malattie infettive.
Nel caso dell’epidemia di colera in Africa Occidentale e nella regione del Sahel negli anni settanta, l’incapacità degli Stati coinvolti è evidente. Le prime avvisaglie della malattia interessano la Guinea. Da qui, l’epidemia si diffuse seguendo una rotta da costa a costa, e da nord a sud. Veicoli dell’epidemia sono le rotte commerciali, i fiumi, il cui impatto aumenta con la siccità e la diffusione della malattia secondo uno schema uomo – ambiente / ambiente – uomo. La popolazione in fuga si sposta villaggio per villaggio, influendo sull’incidenza della malattia presso i nuclei con maggiori difficoltà socioeconomiche e più lontani dalle strutture ospedaliere.
Dalla Guinea il colera arriva in Mali, nella Sierra Leone e in Costa d’Avorio. La direzione nord-sud nella malattia permette la propagazione in Mauritania, Nigeria, Ciad e parzialmente in Etiopia.
L’assenza di controlli commerciali e degli spostamenti dei soggetti particolarmente a rischio, come i pescatori e i venditori di bestiame, si traduce in un continuo alimentarsi e rialimentarsi delle rotte veicolari. L’impatto è devastante e la lezione non viene appresa, portando a ricorrenti crisi epidemiche fino ad oggi: nella sola Bissau 5800 persone vengono contagiate in tre mesi nel 2005.
Salute e politica oggi
In età contemporanea, prima dell’affermarsi del valore universale dei diritti individuali, la salute viene considerata un tema politico di rilevanza internazionale, comunque subordinata all’interesse delle maggiori potenze. L’approccio che prevale dal secolo XIX alla Seconda Guerra Mondiale è quello di limitare la diffusione di epidemie e malattie infettive a livello globale, per salvaguardare il commercio sicuro tra gli Stati. In quest’ottica, un male organico infettivo non viene considerato importante perché minaccerebbe la salute individuale, ma piuttosto come rischio per l’interesse nazionale. L’obiettivo dichiarato dei regolamenti dell’OMS all’inizio degli anni cinquanta è quello di assicurare la massima sicurezza contro la diffusione internazionale di malattie con la minima interferenza per il commercio globale e i viaggi. Le malattie che alimentano le preoccupazioni politiche, per le quali l’OMS richiede informazioni da parte degli attori statali coinvolti, sono il colera, la peste e la febbre gialla, lasciando da parte altre malattie presenti in stati in via di sviluppo come il dengue.
Il diritto alla salute come diritto universale dell’uomo contribuisce a cambiare l’approccio stato-centrico. Ne risultano pressioni per un intervento nei confronti di malattie moderne come l’AIDS/HIV e per l’inclusione di attori non statali, anche privati e multinazionali, in maniera tale che da una international governance si potesse passare ad una global governance. In questo contesto, l’OMS non è più un’organizzazione dipendente dalle informazioni degli Stati, a volte restii a concederle per preoccupazioni interne come si è visto nel caso della SARS in Cina, ma potenziata dall’attività di altri attori che – seppur per beneficio privato – sono in grado di soddisfare il requisito del diritto alla salute individuale. I critici della globalizzazione non tengono in considerazione che rovesciare tale processo significherebbe anche “de-globalizzare” la salute.
SARS e Coronavirus: un fallimento e un’opportunità per la Cina
Sei mesi dopo la prima apparizione a Guandong (2002) in Cina, la SARS aveva colpito 8100 persone e causato 800 vittime, diffondendosi in più di venti Paesi.
La risposta del governo cinese è stata piuttosto debole ed evasiva. Si è cercato di tutelare i legami internazionali e i rapporti commerciali evitando di diffondere informazioni sul virus a livello interno e internazionale. Il governo comunista pensava allora di poter mantenere la stabilità sociale salvaguardando contemporaneamente la partnership commerciale e il PIL. Il risultato è stato quello di non conseguire né l’uno né l’altro obiettivo. Solo 86 giorni dopo il primo contagio certo, l’OMS è riuscita ad ottenere informazioni adeguate dal governo cinese, criticandone apertamente la mancanza di trasparenza. La domanda internazionale di beni cinesi ne ha risentito, accompagnata allo stesso modo da un calo degli investimenti diretti esteri verso la Cina e dei viaggi connessi con tale flusso.

L’attuale diffusione del Coronavirus mostra che la Cina ha appreso la lezione. Nonostante il numero dei contagi a fine Gennaio risulti simile all’epidemia passata, il Coronavirus non è rimasto nascosto a lungo e Pechino ha preso la decisione di diffondere le informazioni dopo ventisei giorni, minacciando le autorità locali in caso di negligenza nella comunicazione di nuovi casi e promuovendo l’assistenza sanitaria gratuita alla popolazione contagiata. Molto veloce è stato anche l’intervento che ha portato in poche settimane alla costruzione di due ospedali nella provincia di Wuhan. Il modus operandi di Pechino ha ricevuto stavolta il plauso dell’OMS e il consenso interno nei confronti del regime ne ha beneficiato.

Sebbene la situazione sia differente rispetto agli anni 2002 – 2003, non è andata allo stesso modo per il soft power cinese: oltre alla diffidenza internazionale e alla battuta d’arresto economico, c’è la questione di Taiwan che non può assistere alle riunioni dell’OMS sul nuovo virus per il principio della sola Cina abbracciato dalla stessa OMS. Se Pechino vorrà aumentare le possibilità di annettere Taiwan (che nelle ultime elezioni non ha certo dimostrato di essere vicino a tale soluzione) e distendere le relazioni con Hong Kong, l’accesso di Taiwan all’OMS in una situazione di emergenza sembra essere un passo preliminare essenziale.