Le attività (s)conosciute degli italiani al fronte
“Italiani brava gente”: chi non ha mai sentito questa frase, capace di strappare ancora un sorriso, soprattutto a nonni e parenti più anziani, in merito alle peripezie dei nostri connazionali durante la Seconda Guerra Mondiale e nelle colonie? Affermazione avvalorata senza dubbio dall’immagine bonaria, riportata dai tanti reduci, dell’italiano spedito al fronte controvoglia. L’italiano avvilito dall’obsolescenza dei propri equipaggiamenti, che cerca un contatto amichevole con le popolazioni che dovrebbe sottomettere, in opposizione alla brutalità dell’alleato tedesco. Ma, ragionando a posteriori, eravamo davvero brava gente?
Per farsi un’idea basta dare un’occhiata ai numeri della repressione fascista, agli ordini del Generale Graziani, delle popolazioni libiche ostili al dominio coloniale. Nel solo biennio 1930/31, oltre 80mila seminomadi furono internati in campi di prigionia nel deserto della Sirte, in condizioni tali da causare la morte di almeno metà di essi nel giro di tre anni. Per evitare il sostegno materiale ai ribelli, nemmeno il bestiame venne risparmiato, con un’eliminazione di circa l’85% tra ovini, cavalli e cammelli. Ovviamente, la situazione in loco non era poi così dissimile da quella delle colonie delle altre potenze europee. Eppure, nonostante ciò, la conoscenza di questi fatti rimarrà a lungo nascosta all’opinione pubblica italiana grazie all’abile opera di mistificazione informativa attuata dal regime, il quale non dovette mai affrontare né moti di protesta né, semplicemente, di sdegno.
L’invasione dell’Etiopia
Nuovamente assetato di terra e desideroso di mostrare i propri (con un neologismo potremmo dire photoshoppati) muscoli, il regime italiano si lanciò nel 1935/36 alla conquista di uno degli unici due territori d’Africa rimasti indipendenti: l’Impero d’Abissinia, l’odierna Etiopia. Fondamentalmente povera di risorse, l’Etiopia venne “risparmiata” dalle potenze coloniali anche per la fede religiosa dei suoi abitanti, cristiani da molti secoli, e per le asperità del territorio, che comunque non intimorirono l’esercito fascista. Con l’espediente di un inscenato incidente alla frontiera, la regione venne invasa e alla fine del ’36 sottomessa, o almeno così sembrava. I capi abissini locali, infatti, erano rimasti fedeli all’Imperatore Haile Selassie (il Negus) fuggito grazie all’aiuto britannico. Tormentarono gli occupanti italiani con i resti delle loro armate, subendo come vendetta la deportazione in Italia e – per i capi minori – fucilazioni di massa.

L’uso dei gas
Durante i combattimenti, e non solo, le truppe italiane fecero anche uso di aggressivi chimici, i gas. Pur avendo firmato nel 1928 una convenzione di non utilizzo, l’Italia continuò a sviluppare il proprio arsenale chimico, trovando occasione d’impiego nella conquista d’Abissinia, appunto, nonostante l’utilizzo in azioni belliche non fosse poi così diffuso. Questo non per chissà quale etica, ma semplicemente perché il gas non era ritenuto così sicuro nemmeno per chi lo maneggiava. Per questo motivo si preferì affidarne lo spargimento all’Aeronautica, piuttosto che all’artiglieria, capace di colpire le retrovie abissine ed i relativi villaggi, senza il rischio di “gasare” i reparti amici. Poco importa se in questo modo interi villaggi vennero letteralmente soffocati nel sangue. Si tratta di omicidi di massa testimoniati dalla Croce Rossa internazionale, ma comunque passati sotto silenzio dalla patria censura, in maniera così abile da essere dimenticati per decenni dall’opinione pubblica italiana.
Comunque, l’uso del gas in operazioni belliche terminò nel 1936. Il suo impiego però continuò per almeno un altro anno nella repressione della guerriglia di popolo fomentata dai nuovi capi locali abissini, creando così un circolo vizioso di efferatezze rimasto a lungo taciuto.
Gli italiani in Jugoslavia
La durezza dell’occupazione italiana non si fece sentire solo sul suolo africano. A testimoniarlo sono gli Sloveni, o meglio gli Jugoslavi, che dovettero subire due anni di dominio dal 1941 al 1943. Una situazione resa ancora peggiore dalla presenza in loco dell’alleato germanico, tanto brutale quanto efficiente nella repressione dei sovversivi. Tutti conosciamo la versione nazista della legge del taglione: 10 nemici per ogni loro caduto. Tuttavia dimentichiamo che grazie al generale Roatta, il bono italiano venne autorizzato a fucilare 100 persone ogni soldato ucciso, secondo quanto venne scoperto anche negli archivi del cosiddetto “Armadio della Vergogna”. Infine, rimanendo in Jugoslavia, anche l’Italia può annoverare il suo campo di concentramento, situato sull’isola di Arbe (oggi in Croazia). In due anni di dominazione italiana nei Balcani vi trovarono la morte circa 25.000 persone per fame e maltrattamenti.

Certo, le prove storiche sono inconfutabili: gli italiani sono stati dominatori molto meno peggiori di tanti altri. Questo è un fatto, così come è un fatto la generosità di certi nostri soldati verso le popolazioni dei territori occupati.
Perché non tutti erano assassini, non tutti avevano lo spirito di crociata della superiorità razziale. Ma è necessario comprendere che queste azioni erano la linea di condotta ufficiale del regime fascista, non di qualche estemporaneo fanatico fuori controllo. Per questo è d’obbligo ricordare e condannare, ma soprattutto ammettere, perché, a quanto pare, la brava gente faceva anche cose brutte.
Nota: per i dati citati nell’articolo si veda “Le guerre italiane” di G. Rochat (Einaudi, 2008). Per il campo di Arbe si vedano i documentari sulla II Guerra Mondiale narrati da C. Lucarelli.