La situazione nel Paese dopo il trionfo di Boris Johnson
Le elezioni britanniche hanno visto trionfare Boris Johnson, leader dei conservatori: ha ottenuto 368 seggi su 650, contro i 155 dei laburisti di Jeremy Corbyn. Il risultato è una certezza per l’Inghilterra, ormai prossima all’uscita dall’Unione Europea, ma non per la Gran Bretagna, che rischia di vedersi disgregare dopo tre secoli di Unione. In Scozia, infatti, il partito liberal-democratico e nazionalista dello Scottish National Party (SNP), guidato dalla giurista Nicola Sturgeon, resta ancora la prima formazione del Paese, con 48 seggi sui 59 scozzesi disponibili nel Parlamento britannico di Westminster.
Il referendum per l’indipendenza scozzese, chiesto a gran voce dallo SNP, sembra così più vicino. Se il divorzio tra Inghilterra e Scozia diventasse realtà, per la Regina Elisabetta II sarebbe davvero beffardo dopo oltre 60 anni di Regno. La Casa Reale londinese, per evitare infiltrazioni nel mondo della politica popolare, storicamente non detta influenza: deve lasciare, in pratica, il libero arbitrio al Paese.
Scozia: un possibile secondo referendum per l’indipendenza
Ad Edimburgo il Parlamento autonomo fu istituito nel 1999, con 129 seggi e a sistema proporzionale misto. La Scozia, di lì in poi, ha potuto potenziare ulteriormente la sua autonomia. Il potere del Parlamento si concentra principalmente nel campo delle decisioni sociali e sanitarie, come la salute, l’istruzione, le politiche di sviluppo economico, la giustizia, la gestione ambientale, l’agricoltura e le politiche per lo sport e le arti. Da Londra, invece, dipendono le politiche estere e quelle della difesa. Sono britanniche quindi, e non scozzesi, le decisioni macroeconomiche, la gestione delle relazioni internazionali, degli affari esteri, della sicurezza sociale e la rappresentanza della Corona. In caso di indipendenza scozzese, la Gran Bretagna rischierebbe di scomparire, o comunque di perdere una grande fetta del puzzle. Sarebbe un problema per Londra, specie da un punto di vista economico: in primis per il petrolio del Mare del Nord, sfruttato in acque scozzesi.
Dopo il referendum consultivo per l’indipendenza scozzese del 18 settembre 2014, con la vittoria dei No al 55,30% contro il 44,70% dei Sì, il vento ha cambiato direzione. Al referendum per la Brexit nel 2016 la maggioranza scozzese, al contrario di quella inglese, ha optato per rimanere nell’Unione Europea. E a gran voce, lo SNP chiede un secondo referendum per il 2020.

Il Parlamento scozzese
La Scozia tra unione e autodeterminazione
Quali elementi storici ci sono per favorire l’indipendenza scozzese? La Scozia è innanzitutto un Paese che possiede una sua identità storica. Ci sono due religioni, cattolica e protestante, e tre lingue ufficiali: l’inglese, lo scozzese e il gaelico. Una tradizione di usi e costumi propria, ereditata dalla secolare cultura dei clan rurali del Paese, quelli che abitavano nel nord (sulle montagne delle Highlands) e nel sud (nelle pianure delle Lowlands). Scomparvero negli anni ’40 del ‘700 quando molte famiglie emigrarono in Inghilterra, in America del Nord e in Oceania. Oggi, i pro nipoti dei clan, sono riconoscibili dai cognomi: sono, per esempio, quelli col prefisso -Mc. “Mac” in gaelico significa “figlio di”: Mc Donald è dunque “figlio del clan Donald”.
I clan si sciolsero e si dispersero nel mondo quarant’anni dopo l’Unione tra Londra ed Edimburgo: fu soprattutto l’assimilazione inglese a renderli periferici e ad impoverirli, economicamente e culturalmente. Quel ‘700, per giunta, non fu felice per lo Stato scozzese: l’Unione con Londra avvenne in un momento decadente per la Scozia. Fu infatti il frutto di un compromesso raggiunto nel 1707, dopo il fallito tentativo scozzese di colonizzare la regione di Darien, al confine tra Colombia e Panama, alla fine del 1600. La temperatura equatoriale locale decimò i coloni scozzesi, abituati in precedenza a ben altro clima. Il governo scozzese, indebitato, accettò l’atto di Unione e disse sì al matrimonio con la Corona inglese.
Gli anni Novanta
Col tempo, specie dopo l’era della Thatcher, il progetto di indipendenza scozzese è tornato in auge. Alla fine degli anni ’90, la drastica perdita di consensi dei conservatori scozzesi filo-unionisti ha spianato di fatto la strada al successo dello SNP. All’opposizione nel Parlamento di Edimburgo tra il 1999 e il 2003, è divenuto governo di maggioranza con Alex Salmond tra il 2011 e il 2016. Da quell’anno, però, è nuovamente in minoranza con Nicola Sturgeon: il rialzo del partito Conservatore di Ruth Davidson non ha permesso allo SNP di ottenere di nuovo la maggioranza assoluta. Ma per soli due seggi. Per la Scozia le ultime elezioni sono state molto significative anche da un punto di vista storico: erano tre donne, infatti, le candidate al Parlamento scozzese. C’erano la nazionalista Nicola Sturgeon, la conservatrice Ruth Davidson e la laburista Kezia Dugdale.
L’europeismo scozzese
Per comprendere le ragioni dell’europeismo scozzese, bisogna andare indietro nel tempo e capire gli effetti portati dalla nascita dell’Unione britannica. L’Inghilterra, dopo il 1707, estese la sua influenza imperiale sull’intera isola. Avviando il processo di assimilazione culturale, i cattolici scozzesi, legati per la fede da tempo alla Francia, furono di fatto messi in disparte. Mentre cresceva il prestigio della Chiesa Presbiteriana, calava quello dell’Istituzione Cattolica: le scuole più influenti, per esempio, erano sotto la gestione protestante. La letteratura scozzese, inoltre, era riconosciuta come prodotto britannico (e non più scozzese), mentre il gaelico e lo scozzese perdevano i loro parlanti, rendendole a tutti gli effetti confinate nelle zone rurali più remote del Paese.
Lo Scottish National Party
L’insorgere col tempo del nazionalismo-romantico in molte zone d’Europa, portò in Scozia alla diffusione, specie tra i cattolici, di una cultura nazionalista e liberal-democratica che permise, negli anni ’30 del ‘900, di fondare lo Scottish National Party. Furono però gli anni ’60 il crocevia identitario che unì, pur con qualche eccezione di carattere campanilistico, la Scozia. La secolarizzazione, infatti, avvicinò i protestanti e i cattolici, al contrario di quanto invece accadeva nella vicina Irlanda del Nord. Ma fu il petrolio, scoperto negli anni ’70, ad aprire un forte dibattito: l’industria venne rilanciata e furono nazionalizzati diversi settori, arricchendo le casse statali. Il petrolio, negli anni ’90, riusciva a garantire un terzo del profitto di tutta la produzione scozzese.
Oggi, la tesi europeista scozzese che si contrappone a quella filo britannica sostiene l’importanza del principio di sussidiarietà. L’Europa interverrebbe in aiuto alla Scozia nei casi in cui Edimburgo, capitale geograficamente remota rispetto al baricentro europeo, non riuscisse a massimizzare l’efficienza degli scambi con altri partner europei. Inoltre, gli europeisti abbracciano la tesi fondata sul mito della Scandinavia. La Scozia, libera dalle “catene britanniche” e col petrolio a disposizione, avrebbe le carte in regola per omologarsi (a livello economico e sociale) alle politiche delle Nazioni scandinave, abbandonando definitivamente quelle inglesi. Per gli europeisti, quindi, il libero scambio e la libera circolazione permetterebbero un maggiore profitto, per evitare il pericolo di essere una “periferia europea”. Tutto questo, comunque, mantenendo aperto il dibattito sulla moneta: solo lo SNP è favorevole all’Euro, mentre Verdi e Socialisti optano per il mantenimento della Sterlina.