Ghosteen, il nuovo album di Nick Cave
Se si potesse attribuire alle opere di Nick Cave un valore saggistico, probabilmente assisteremmo all’estinzione del dolore. Ne parleremmo come di una malattia ormai debellata dal suo vaccino, non riusciremmo a ricordare cosa vuol dire essere sopraffatti da uno stato d’animo. Purtroppo per noi, di saggistico la sua narrazione ha ben poco. Se volessimo parlarne in termini letterari potremmo attribuire ai suoi stilemi un qualche carattere paideutico della più antica matrice: il mito. Di mitologico sussiste l’auralità attraverso cui la narrazione viene tramandata, nonché il valore insostituibile della performance che accompagna e dà vita al racconto. Inoltre, c’è il fatto di non essere applicabile alla lettera come una prescrizione medica, ma di evolvere e mutare in ciascuno di noi in modo diverso: il processo di interpretazione è fondamentale.
Dolore e Amore
Nella sua riconnessione alla dimensione arcaica quest’uomo ha fatto del dolore il proprio pilastro, un veicolo utile a riscoprire l’assenza di appigli, il vuoto e allo stesso tempo la concretezza della realtà. Per molti versi il nuovo album di Cave, Ghosteen, riesce a recuperare e sviluppare temi da sempre presenti nel suo immaginario, quali la natura, la divinità e il viaggio. Tutto, però, alla luce dell’avvenimento cardine della scomparsa del figlio. I brani volano – al solito – uno dietro l’altro, dando spazio nel petto a quello strano glomo di malinconia che si prova a lasciar andare qualcosa con la consapevolezza che sia inevitabile. Tutto nell’album è allegoria della perdita, così come tutto rappresenta qualcosa di nuovo, all’interno di una cronologia che è senza tempo.
The idea that we live life in a straight line, like a story, seems to me to be increasingly absurd and, more than anything, a kind of intellectual convenience
Da un’intervista rilasciata al Guardian.
Tutto sembra prendere vita dall’Amore che, come la prima immagine agli occhi di un neonato, non lascia spiegazioni. Si presenta qual è: irrequieto, intenso, dietro la metafora di una mandria di cavalli bianchi che irrompono dai campi nelle strade di città. Un sentimento antico alla vista del quale gli uomini, desensibilizzati e impauriti, si rinchiudono in casa. Una coppia è superstite allo sgomento, forte della consapevolezza di poter possedere e conoscere quella sensazione. I due restano in strada a guardare, le mani strette tra loro e nel fuoco che le unisce.
Gli scenari che vengono presentati sono interamente naturali, immagini mistiche trovano spazio all’interno degli elementi di terra, acqua, aria e fuoco. Le lucciole sono allegoria della fragilità umana che ci vede inermi protagonisti di un gioco, nelle mani di un bambino, forse piccole imitazioni delle stelle lontane e inarrivabili. Le mani, il nostro elemento prensile, diventano invece scenario di volteggi di luce e apparizioni, lasciando lenta la presa sulla realtà e portandoci ad esplorare un mondo sospeso tra la vita e la morte.
Più volte appare il riferimento al passato come un evento ormai lontano. Non per questo è meno influente, ma inevitabilmente deve lasciar spazio a qualcos’altro. E questo “qualcosa” talvolta prende le sembianze di una speranza. Ma le speranze sono facili da spezzare e possono essere velocemente disilluse in quanto frutto di un vagabondaggio di pensieri che si scontra con la razionalità. E se l’Amore è quanto di meno razionale esiste, il Dolore è la sua nemesi, trova continuamente il modo di apparire come qualcosa di cristallino, concreto, da toccare.
L’evasione e il divino
L’unico modo per evadere resta il Viaggio. È un viaggio fisico, come tempo fa lo era quello verso Ginevra (in Higgs Boson Blues). Un viaggio che porta a tastare ciò che si sta vivendo con la scansione di un road trip: a tappe, ma stavolta con qualcuno al proprio fianco. Evidentemente la condivisione del dolore diventa qualcosa di concepibile e attuabile in funzione del fatto che, laddove la mente può fantasticare sola, la realtà va condivisa per renderla digeribile. In proposito, Cave tempo fa rilasciò un’intervista in cui affermava che “soffrire apertamente ci ha salvati”, in riferimento anche alla moglie.
In ultimo, come aspetto che più risorge e si rinnova in quest’album rispetto ai lavori precedenti, c’è la Divinità. Se si parla di Cristo, se ne parla in chiave più che mai umana. Prima è un bambino nelle braccia della propria madre, poi diventa un martire “pieno di dolore”, ed è un dolore che sembra avere accezione di rimpianto. Se si parla invece di un dio che di umano non ha nulla, egli è crudamente rivelatore. Il suo compito è quello di mettere l’uomo dinnanzi alla propria caducità: non c’è sconto sulla sofferenza, non c’è una via facilitata per la guarigione. C’è solo la consapevolezza come consolazione della perdita.
Una ritmicità che comunica
In Ghosteen la ritmicità lascia spazio a un lento arrancare narrativo, sempre meno melodico, sempre più simile a un mantra sussurrato. Le armonie sono ariose e hanno accezione rituale nei loro sviluppi. L’ascoltatore si trova immesso in una liturgia di cui non conosce l’oggetto della venerazione ma della quale ha ben chiaro il carattere d’espiazione.
Il trascorso dell’autore è continuamente citato – dove più esplicitamente e dove invece in termini di leggenda – ma non sovrasta mai l’aspetto dell’indeterminatezza e dell’impersonalità di cui i temi principali sono portavoce. Aspetto, questo, che rimane nell’ascoltatore come un lontano eco, come un canto popolare in grado di svelare un’identità perduta, un’appartenenza inconscia.