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26 Dicembre 2018 / Editoriale

Ciò che Antonio non è

Antonio adorava praticare un particolare sport estremo. Smontare le fake news e rispondere ai cosiddetti “analfabeti funzionali” sui social. Lo faceva per un desiderio grande che aveva dentro, quello di combattere la disinformazione. Antonio voleva capire, non giudicava, perché era consapevole del fatto che la sua  voce nella nostra Italia del 2018 contasse quanto o addirittura meno della loro. Lui non è qui e non può scrivere, quindi tocca a me prendere tutte queste fake news dette su di lui e raccontarvi ciò che Antonio non era.

Partiamo dai dati anagrafici. Nome Antonio, cognome Megalizzi. Non Micalizzi, Megarazzi o chi più ne ha più ne metta. E ciò vale anche per le due redattrici che erano lì, Caterina Mosera, Clara Rita, altre versioni? E non mi inoltro nella ricerca della trascrizione del nome di Bartek, l’amico polacco trapiantato a Strasburgo che anche abbiamo perso pochi giorni fa.

Antonio non aveva 28 anni. È nato il 15 maggio del 1989, quindi se i conti tornano (e sono anche abbastanza facili da fare), tra pochi giorni saremo catapultati nel 2019 quando ne avrebbe compiuti 30. Ergo, ne aveva 29. E pure l’Espresso, che l’ha eletto persona dell’anno, gliene ha dati 28.

Antonio non lavorava a Strasburgo. Per lo meno non nel senso canonico del termine. Con Europhonica non ha mai visto un euro, anzi forse ne ha persi concedendosi le occasionali escargots quando andavamo a seguire la plenaria. Il lavoro non retribuito che faceva a Strasburgo però gli piaceva così tanto che spesso ha detto di volerci vivere. Voleva raccontare le istituzioni europee, farle conoscere alla gente attraverso la radio.

A tal proposito, Europhonica non è una radio. Non è neanche un’associazione né un consorzio di radio. È un programma ormai giunto alla sua quarta stagione composto da una redazione di universitari che si occupa di raccontare l’Europa in modo semplice. È nato sotto l’ala di RadUni, l’associazione che raggruppa le radio universitarie italiane. C’è chi ha detto che gli avvenimenti della settimana scorsa sono una grande trovata pubblicitaria per far conoscere Europhonica. Ma il caporedattore l’abbiamo perso per davvero. Altri sono convinti che ci sia dietro Macron, che voleva distogliere l’opinione pubblica dalla spinosa questione dei gilet gialli. Ci piacerebbe, forse ci divertirebbe pure credere in queste teorie del complotto che vedono Antonio ora vivere alle Bermuda con Elvis, Michael Jackson e Marilyn Monroe, ma significherebbe dire anche che la terra è piatta e che i rettiliani e le scie chimiche esistono.

Antonio amava l’Europa, vero. Antonio sognava un’Europa senza confini, vero. Ma non amava incondizionatamente l’Europa come la conosciamo oggi. Era un forte critico della strategia comunicativa delle istituzioni, così come di altri aspetti dell’Unione. Non era un idealista senza pesi che lo tenessero stabile a terra. Aveva una visione molto lucida e pragmatica dei passi ancora da fare per avvicinarsi a ciò che auspicava per l’Europa. E non avrebbe apprezzato l’uso strumentale fatto della sua persona da parte di partiti e figure politiche di tutto lo spettro.

Ciò ci porta al prossimo punto. Antonio non si è sacrificato per l’Europa. Antonio non è morto PER niente e nessuno. È stato colpito alla nuca da una pallottola mentre girava per i mercatini di Natale a Strasburgo dopo una lunga giornata di lavoro. Non si è sacrificato, è stato ucciso. Era una persona straordinaria, ma mentiremmo a noi stessi se lo elevassimo a martire o a eroe, a nuovo padre fondatore dell’Europa o a simbolo della lotta al terrorismo islamista.

Come è stato spesso detto Antonio non meritava di finire sui giornali nazionali perché ucciso da un suo coetaneo. Meritava di finirci perché aveva realizzato qualcosa di grande o come firma sotto degli articoli ironici ed eleganti che spiegassero in maniera semplice ed efficace cosa succede in quei palazzi pieni di vetri a Strasburgo. E non serve creare in suo nome una radio europea, come è stato proposto da vari rettori nei giorni dopo la morte di Antonio. Il progetto esiste già, e si chiama Europhonica. E non si fermerà, continuerà a raccontare l’Unione Europea con gli occhi degli universitari, tra spiegoni del venerdì e approfondimenti dal taglio fresco e curioso. La redazione non starà in silenzio, ricomincerà a parlare presto per portare avanti il sogno condiviso con Antonio.

Articolo di Sonia Curzel

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Riguardo Sonia Curzel

Sono l’unica trentina nella mia classe di Mass Media e Politica. Mi piacciono gli attori inglesi, l’Earl Grey e le cause perse. Guardo tante (troppe) serie tv, e per sentirmi meno in colpa ne scrivo e ne parlo in radio. Mi piacciono le lingue e giocare con le parole, amo l’Unione Europea e il teatro. Credo che i meme siano una forma d’arte e che le olive all’ascolana dovrebbero essere patrimonio dell’umanità.

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