Nessuno stipendio, nessun rimborso, nessun pranzo offerto
Sono le 9 di mattina e come tutte le mattine degli ultimi due mesi e mezzo cammino a passo svelto contro il caldo umido e sempreverde di Roma verso la maestosità di Piazza del Popolo. Quando mia madre mi chiede se sono già uscita di casa, cerco sempre la giusta presunzione per risponderle “sì, mamma, sto andando a lavoro”, ma non lo faccio mai. Non lo faccio perché a prendermi in giro bastano le decine di recruiters con cui sono obbligata ad interfacciarmi ogni mese, quando decido di buon cuore di sedermi davanti al pc per inviare nuove candidature.
Allora, ogni volta, a mia madre rispondo un vago “sì, mamma, sto andando”. Non specifico dove e non lo faccio perché mi voglio bene e decido quotidianamente di mentire bonariamente a me stessa, senza essere costretta a ricordare che la mia unica destinazione è la sede del tirocinio non retribuito che sto svolgendo da qualche mese. Un tirocinio bellissimo, un tuffo nel mondo degli adulti, che di molto si allontana da quello della spensieratezza dell’università.
Non ricordo con esattezza quante volte, con tono scherzoso, mi son sentita dire “mettiti l’anima in pace, non sperare in un contratto futuro”. Io che non ho mai sperato in un contratto, io che per adesso sono ancora convinta che la mia unica destinazione sia una cattedra universitaria, persino io ho iniziato ad arrovellarmi lo stomaco cercando piani alternativi e modi redditizi per affrontare il futuro alle porte.
Per adesso, però, sono ancora molto lontana dall’obiettivo: nessuno stipendio, nessun rimborso spese, nessun pranzo offerto e nessuno spiraglio di luce all’orizzonte. Faccio parte della massa di dimensioni epiche di tirocinanti non retribuiti (o retribuiti male) e vorrei dire di esserne fiera.
A 24 anni, con quasi due lauree a pieni voti in mano, due tirocini sul CV e una buona collezione di esperienze di volontariato non riesco ad essere contenta di lavorare senza essere pagata.
Forse è vero, hanno ragione quando dicono di noi giovani che siamo degli ingrati e che in quanto progenie dell’Erasmus e delle comodità del nuovo millennio, non riusciamo a fare sacrifici. Quello di cui non parla nessuno, o almeno non abbastanza, però, è che i millennials sono la generazione del lavoro precario, figli dei figli del boom economico, che di tirocini non retribuiti non hanno mai sentito parlare (se non dalle esperienze al vetriolo della propria prole). Censis e Confcooperative ci descrivono come il prossimo esercito dei poveri, il mercato si dispera per riuscire a comprarci e un futuro solido e tranquillo resta solo una chimera.
La legislazione italiana ed europea sui tirocini
I tirocini di formazione o tirocini curricolari sono una pratica molto diffusa e non solo in Italia. I tirocini curricolari sono stage svolti durante gli studi, di competenza statale e senza alcun tipo di obbligo di retribuzione, a differenza dei tirocini extracurricolari che prevedono un obbligo di retribuzione, che in Italia varia da regione a regione e parte da un minimo obbligatorio di 450 euro. Sarebbe bello vedere il bel paese seguire l’esempio dell’Unione Europea, che lo scorso 2 luglio, ha deciso che tutti i tirocinanti al Parlamento Europeo dovranno essere obbligatoriamente retribuiti. Ad ogni modo, la rete di enti che accolgono giovani volenterosi di confrontarsi con il mondo del lavoro senza, però, ripagarne gli sforzi è immensa.
Se tutto questo non bastasse a dipingere una situazione grigia, diventa necessario ampliare il quadro e far riferimento all’obbligatorietà di questi tirocini. Che siano richiesti dal percorso di studi o dalla volontà di costruirsi una minuscola chance di sbarcare il lunario, spesso gli stage diventano un calvario che dura più di quanto in realtà si vorrebbe.
Mi è stato detto in passato che quando si inizia, è difficile smettere. Il vero motivo per cui uscire dal tunnel dei tirocini non retribuiti è difficile è che trovare lavori entry-level o tirocini retribuiti è particolarmente difficile. Provare per credere: un viaggio virtuale nelle vite degli altri su Linkedin può facilmente raccontare la strada obbligata dei tirocini prima di ottenere un’occupazione almeno in parte rispondente alle caratteristiche di un lavoro da sogno.
Tutto ciò, non solo crea un grande discrimine tra chi può permettersi economicamente di affrontare un’esperienza nel proprio paese o all’estero senza ricevere alcun supporto finanziario, ma avvalora la tesi di chi sostiene che la mobilità sociale sia solo una favola carina. Oltre al grande dilemma dell’incertezza del futuro, dovuto alla scarsa probabilità di vedersi offerta una posizione fissa al termine dei mesi di stage, un disagio spesso sottovalutato è quello di dover cambiare città ogni 3 o 6 mesi alla ricerca dell’opportunità della vita, anche dall’altra parte del mondo.
Persone. Non semplici tirocinanti
Capita spesso, infatti, che i chilometri da percorrere siano quelli necessari per raggiungere l’altro lato dell’Oceano. È da New York che arriva l’esperienza di Michela, 24 anni e laureanda magistrale in Diplomazia Pubblica, che come tanti coetanei provenienti da tutto il mondo (o quasi) è rimasta vittima della bellezza scintillante di New York e delle mondo delle Nazioni Unite. Un tirocinio presso la sede newyorkese dell’ONU è tanto affascinante quanto non retribuito, così come non sono rimborsate le spese di trasporto e di qualsiasi altra necessità.
La fortuna di Michela è stata poter usufruire dell’ospitalità di alcuni parenti residenti nella grande mela. Fortuna che non appartiene a tutti, specialmente se buttiamo un occhio ai paesi in via di sviluppo. Il paradosso è proprio questo, che l’ONU non dia possibilità a ragazzi più svantaggiati economicamente di usufruire delle stesse opportunità di chi fa parte della parte ricca del pianeta. Vivere a New York ha un costo proibitivo, ma nonostante questo, ha dimensioni colossali il numero di giovani laureati (e non) che decide di tentare di scavalcare i requisiti (anche e soprattutto economici) richiesti, per portare a casa un CV più gonfio e attraente.
Proprio questa la speranza di Laura, 25 anni e neo-laureata in Giurisprudenza, dopo aver concluso un tirocinio in un importante ente europeo. Un tirocinio non retribuito, che non prevedeva per i tirocinanti la possibilità di accedere a sconti di alcun tipo, e tantomeno di aver garantito il materiale di cancelleria di base.
Come se non bastasse, le speranze di vedersi offerta la possibilità di continuare a lavorare con un contratto stabile al termine di tirocini di questo tipo sono basse, se non del tutto assenti.
Nonostante ciò, però, si trova sempre (o quasi) la forza di chiedere ai propri genitori un ulteriore sforzo economico, che si spera verrà ripagato da un lavoro redditizio. Speranza che, nel caso di Laura e in quello di altri tantissimi giovani laureati, si macchia di saccenteria e di naïveté: una laurea in tasca e un tirocinio di livello non garantiscono la possibilità di candidarsi per posizioni diverse da quelle di intern, perché ormai un paio di anni di esperienza sono richiesti anche per i livelli più bassi. E un paio di anni di esperienza corrispondono sempre a un paio di anni di tirocini (spesso anche non retribuiti).
Quando sono retribuiti, però, sono spesso retribuiti male. Ce lo racconta Fabio, 24 anni e laureando magistrale in Studi Europei, attualmente tirocinante in un think tank a Bruxelles, grazie ai finanziamenti del programma Erasmus+ Traineeship, con cui riesce a coprire in piccola parte le spese. Ci racconta che anche per colpa della lenta burocrazia italiana, la prima tranche di borsa è arrivata solo un mese dopo aver già iniziato il tirocinio e la parte rimanente arriverà dopo averlo finito, a scaglioni. Un’esperienza simile è quella di Roberta, 24 anni e laureanda magistrale in Scienze Internazionali e Diplomatiche, che per un tirocinio trimestrale presso l’ambasciata italiana in Canada ha ricevuto 1200 euro, appena sufficienti per coprire i costi del volo aereo, del visto e dell’assicurazione sanitaria.
Poi c’è chi, come Claudia, 25 anni e laureanda in Scienze Internazionali e Diplomatiche, che contenta di tornare nella sua terra, la Sicilia, sta svolgendo un tirocinio in un’organizzazione internazionale che agisce con l’obiettivo di salvare le persone che tentano la disperata traversata del Mediterraneo. Nel fantastico mondo dei tirocinanti non retribuiti, se non si è abbastanza fortunati da avere dei genitori in grado di mantenerci, è necessario trovare lavori paralleli per riuscire ad arrivare alla fine del mese.
E’ una situazione che, ci racconta Claudia, sta creando in lei stanchezza e molta rabbia, accompagnate da un forte senso di impotenza. Fuori dal mondo delle Relazioni Internazionali le cose non sono molto diverse e Giacomo, 25 anni e laureato in Scienze Infermieristiche, racconta una realtà altrettanto difficile, quella che si cela dietro le centinaia di ore di tirocinio formativo obbligatorie in ospedale.
Quella dei tirocini non retribuiti è una realtà che ha dell’incredibile. Le candidature per alcuni posti da intern, senza la benché minima sovvenzione economica, sfiorano il migliaio e i posti disponibili non sono quasi mai più di quanti se ne possano contare sulle dita di una mano. Per questo e per quanto detto fino a ora, sono nate iniziative e campagne di comunicazione e denuncia contro la possibilità di svolgere tirocini non retribuiti. Io non valgo zero ne è un esempio. Nata dall’idea di un gruppo di giovani ragazzi, ex tirocinanti, con l’obiettivo di porre fine a quella che alcuni chiamano (esagerando) “schiavitù 2.0”, questa iniziativa va ad aggiungersi alle altre gocce in un mare di speranze e tentativi di, una volta per tutte, vedere cambiare qualcosa.
Articolo di Giorgia Miccoli