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12 Novembre 2018 / Politica

Rohingya. Cos’è cambiato ad un anno dallo scoppio della crisi umanitaria

IL GRUPPO ETNICO ROHINGYA AD UN ANNO DALLA CRISI UMANITARIA

«E’ un esempio da manuale di pulizia etnica», l’ONU ha definito così la crisi umanitaria in corso in Myanmar da Agosto 2017, quando più di 800,000 persone appartenenti al gruppo etnico dei Rohingya  ̶  una minoranza musulmana le cui origini sono incerte, stabilitasi nei territori birmani secoli fa e avente una propria lingua e cultura oltre che essere di fede Islamica  ̶  ha dovuto abbandonare le proprie case per trovare rifugio al confine con il Bangladesh, in seguito agli scontri scoppiati nella provincia nordica di Rakhine tra le forze di sicurezza birmane e alcuni miliziani del gruppo paramilitare Arakan Rohingya Salvation Army (Arsa).

LE TESTIMONIANZE SULLE VIOLENZE E GLI ABUSI

Nonostante l’esercito birmano continui a sostenere che le rappresaglie siano state rivolte contro i militanti Arsa e neghi il coinvolgimento di civili, organizzazioni internazionali come Medici Senza Frontiere e Amnesty International hanno denunciato il contrario, raccogliendo testimonianze sulle violenze e gli abusi a cui il popolo Rohingya è sottoposto da più di un anno ormai.

 

Secondo MSF, più di 6,700 Rohingya ̶  tra cui almeno 730 bambini sotto l’età dei cinque anni  ̶  sono stati torturati ed uccisi dopo solo un mese dall’inizio degli scontri. Amnesty International, invece, ha riportato casi di abusi e violenze sessuali contro donne e ragazze Rohingya. Da Agosto 2017 almeno 288 villaggi sono stati parzialmente o totalmente rasi al suolo nella regione di Rakhine, secondo le analisi delle immagini dal satellite condotte dall’Osservatorio ONU per i Diritti Umani.

Uccisioni di massa, violenze sessuali, incendi dilaganti, sono solo alcuni dei crimini contro l’umanità commessi dalle truppe birmane, che ostinate negano l’evidenza, mentre il governo si nasconde dietro il volto premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, ministro per gli Affari Esteri, accusata dalla comunità internazionale di aver taciuto sulle responsabilità dell’esercito birmano in ciò che è stato definito da Amnesty International «la crisi umanitaria di rifugiati più in crescita nel mondo», con più di 800.000 sfollati residenti attualmente nei campi profughi sparsi per le terre di confine in Bangladesh.

L’ATTEGGIAMENTO DELLO STATO BIRMANO

Ma la questione Rohingya in realtà, è radicata in un risentimento storico che lo stato birmano ha sempre nutrito contro questa minoranza etnica. Nel 1970, infatti, si è registrata una migrazione di massa dei Rohingya dal Bangladesh verso i territori di confine in Myanmar. Da allora, il governo birmano non ha mai riconosciuto alla comunità Rohingya l’appartenenza ai territori dello Myanmar, considerandola al contrario un gruppo di immigrati illegali, arrivando addirittura a negare loro la cittadinanza, rendendo così apolidi quasi un milione di persone.

 

Già tra il 2012 e il 2016, migliaia di Rohingya abbandonarono i propri villaggi per scampare a varie forme di discriminazione razziale e intolleranza religiosa (il Myanmar è difatti un paese a maggioranza buddista) messe in atto dal governo di Nypyidaw, tra cui la segregazione in apposite aree, in cui intere famiglie erano costrette a condizioni igieniche, e in generale di vita, deplorevoli; limitato accesso all’istruzione, al lavoro e all’assistenza sanitaria.

IL RUOLO GIOCATO DAL CONSIGLIO DI SICUREZZA ONU

Oggi, quella che è una delle più urgenti crisi umanitarie al mondo, stenta ad essere definita dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite un vero e proprio genocidio, seppur le caratteristiche dello sterminio di massa in corso in Myanmar rientrino nei punti stabiliti dall’Art.2 della Convenzione sul Genocidio del 1948.

Ma è facilmente intuibile il motivo che si cela dietro questa mancanza di responsabilità e conseguente presa di posizione, nonostante l’evidenza del dato di fatto: parlare di genocidio, significa prendere provvedimenti direttamente proporzionali alla gravità del crimine in questione e questa non è esattamente l’intenzione della comunità internazionale che preferisce piuttosto agire con cautela  ̶  sinonimo politically correct di utile indifferenza  ̶  invitando il governo birmano a fermare la repressione, senza però imporre sanzioni. Così ci si limita al quasi nulla di fatto, mentre si fa sempre più vivido lo scenario del terrore birmano.

La necessità di aiuti umanitari resta intanto altissima. In questi mesi con la stagione dei monsoni e le frequenti piogge, sono iniziati i lavori di riallocazione dei campi più a rischio di allagamento. Alcuni lavori di drenaggio delle tubature e rafforzamento delle infrastrutture sono stati svolti da ONG internazionali che stanno operando in quei territori. Grazie a queste ultime, secondo l’Inter Sector Coordination Group quasi il 70% dei profughi nei campi d’accoglienza ha accesso ha cibo ed acqua. Oltre 100.000 persone sono state curate per malnutrizione. Sono stati varati piani di vaccinazione su larga scala per minimizzare il rischio di malattie. Da Gennaio 2018, 315.000 bambini sono stati vaccinati. Ma c’è ancora molto da fare.

Nel Giugno 2018 le Nazioni Unite hanno firmato un accordo con il governo birmano per un «volontario, sicuro, dignitoso e sostenibile» rimpatrio della comunità Rohingya nei territori espropriati. I Rohingya restano comunque pessimisti. I territori rasi al suolo durante gli scontri, sono adesso in fase di ricostruzione per l’insediamento di campi militari birmani. Questo, fa sapere Amnesty International, rende maggiormente incerta l’effettiva possibilità di rimpatrio dei Rohingya nei loro villaggi. Inoltre, un generale accordo non è sufficiente a garantire la reale messa in atto del piano di riconciliazione.

Anche se il piano si realizzasse, manca tuttavia l’impegno da parte del governo birmano ad integrare la comunità Rohingya nel tessuto sociale nazionale, attraverso il riconoscimento dei diritti fondamentali, tra cui quello alla cittadinanza. La crisi Rohingya dunque è più di un’emergenza umanitaria. E’ un intersecarsi di impellenti questioni di sicurezza, identità e sviluppo. Finché la comunità internazionale non si assumerà la responsabilità di sostenere pragmaticamente un intero popolo, un processo di riconciliazione effettuale resterà più una congettura che una realtà.

Articolo di Sara Tanan

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