Tutte le volte che qualcuno mi dice: “Ho dei libri che vorrei dare via, sono in buono stato ma non ho spazio, e poi non mi piacciono” la pila di classici e manuali poco attraenti comprende quasi sempre La solitudine dei numeri primi, di Paolo Giordano (Mondadori, 2008).
Sono serviti 10 anni a far leggere e dimenticare quello che a tutti gli effetti è pur stato un best-seller in piena regola. Poca credibilità nei confronti dei personaggi e della storia in sè, situazioni al limite dell’esagerazione, niente di memorabile nemmeno guardando il film che Saverio Costanzo ha costruito con lo scrittore stesso: insipida persino Alba Rohrwacher nel ruolo della protagonista.
La sorpresa “Divorare il cielo”
Eppure Paolo Giordano quest’anno ha fatto ricredere tutti. Einaudi da maggio ha riempito la community bibliofila di Instagram di verde azzurro, ed è la copertina, bellissima, di Divorare il cielo.
“Li vidi bagnarsi in piscina, di notte. Erano in tre ed erano molto giovani, poco più che bambini, come allora ero anch’io. A Speziale il mio sonno era interrotto di continuo da rumori nuovi: il fruscio dell’impianto di irrigazione, i gatti selvatici che si azzuffavano nel prato, un uccello che produceva lo stesso suono all’infinito. Nelle prime estati dalla nonna mi sembrava quasi di non dormire mai. Dal letto dov’ero sdraiata, guardavo gli oggetti della stanza allontanarsi e avvicinarsi, come se la casa intera avesse un respiro.”
La storia è quella di Teresa, torinese di nascita, che passa le estati in Puglia, a Speziale (una frazione del comune di Fasano), dove le tipiche masserie del sud Italia rappresentano la quasi totalità del territorio. È proprio in una di queste masserie che Teresa incorre per fuggire dalla noia della villa famigliare e dove si imbatte in tre ragazzi che vivono sotto la guida di Cesare, loro padre adottivo e “guida spirituale” sui generis.
Il legame stretto con i nuovi conosciuti passa attraverso una serie di lenti che includono soprattutto l’insegnamento di alcuni precetti delle Sacre Scritture e il tentativo di vivere conformemente ad esse, secondo il volere di Dio. Ognuno di loro sperimenterà comunque la vertigine di staccarsi, seppur fugacemente, dal controllo domestico e genitoriale e la narrazione ripercorre in questo senso l’ebrezza delle prime volte, scandendo in modo sempre puntuale le visioni nostalgiche di giovinezza che vengono evocate in tutta la prima parte, che non si riserva il diritto di procedere spedita, mantenendo un ritmo incalzante capace di far ritrovare il lettore a metà libro in un batter d’occhio.
“Per il resto del pomeriggio non pronunciammo altre parole all’infuori di quelle del gioco. Poi dissero che era venuto il momento di pregare. Anche all’istituto pregavo, perciò non mi stupii. Non immaginavo quanto sarebbe stato diverso. Ci calammo uno per volta dalla scala. Superati gli oleandri comparve la lampadina nuda e accesa del pergolato. Bern mi mise un braccio intorno al collo, lo lasciai fare. Non avevo mai avuto dei fratelli, e prima di quel giorno non sapevo neppure di desiderarli così.”
Gli anni passano e una serie di eventi costringono i personaggi a una momentanea divisione. A questo punto ognuno di loro rafforzerà secondo il proprio sistema una sorta di identità, scalfita solo da improvvisi, opachi e quasi sempre dolorosi echi del passato, veri e propri “conti in sospeso” che Giordano gestisce con l’abilità del fisico che aveva affascinato i lettori già con l’opera prima.
A loro modo, anche i protagonisti di Divorare il cielo rappresentano dei numeri primi: vicini ma non abbastanza per sfiorarsi davvero; bloccati in un sistema che non permette loro di allontanarsi del tutto dal punto di partenza. Persino la storia d’amore dalla quale si snodano come in un rapporto di causa-effetto gli altri avvenimenti che seguono nella narrazione passa in secondo piano, tale è la forza di altri temi, estremamente attuali e cruciali, che l’autore affronta e spiega con grande lucidità e adesione alla realtà dei fatti. L’idealizzazione, da parte di alcuni dei protagonisti ritrovati, di uno spazio condiviso capace di creare un vero e proprio microcosmo a basso impatto a partire dalle risorse naturali non farà che portare alla luce numerose contraddizioni per le quali la riuscita del moderno Walden si rivelerà man mano più complessa.
“Ormai siamo al collasso idrico. Lo sai cosa succede a pompare acqua da tutti i pozzi artesiani che ci sono qui? Che la falda si svuota e viene riempita dal mare. Se andiamo avanti così la nostra terra diventerà un deserto. Ciò che dobbiamo fare è rigenerare, – scandì bene quella parola, rigenerare.”
Dunque non soltanto argomenti di aspetto religioso (non trattato nel modo in cui uno si aspetterebbe da uno scrittore del 2000) ma anche ecologico. Una scelta, questa, che risulta efficace perché legata al carattere controverso dell’uomo, unico e vero attentatore dell’ambiente circostante. Chi ha letto Due di Due di Andrea de Carlo (altro romanzo-fiume caratterizzato da una vastità ancora più abbacinante di temi) non avrà difficoltà a ritrovarne l’eco. Persino la promessa di un luogo incontaminato, esente dalla maledizione dell’uomo, si rivela un sogno quasi fallace. È in Islanda che la storia di Teresa si sposta e ci sembra sempre più impossibile e struggente. La stessa Islanda criptica, una sorta di “isola pianeta”, che aveva conquistato il favore della prosa (magnifica) di Giorgio Manganelli; quest’ultimo lucidissimo nel descriverla come “un’infinita prigione senza via d’uscita” al termine del suo viaggio sul finire degli anni ’70.
“Mi sorrise. Schiacciò via la parte accesa della sigaretta e mise il mozzicone in tasca, quel filtro che avrebbe impiegato anni a decomporsi. Ogni cosa aveva un tempo per finire, ma prima o poi sarebbe accaduto, perfino a quel dolore che avevamo in comune.”
Resta da percorrere l’unica via possibile, quella della solitudine, intesa non tanto come facile scelta estetica ma come vera liberazione finale. A Teresa, al termine della storia che Giordano ci regala, resta questa certezza millenaria: è sbagliato credere con arroganza di conoscere del tutto qualcuno; così come è possibile avere fiducia nel fatto che si può sempre apprendere qualcosa di nuovo sugli altri, anche dopo che non ci sono più. E se conoscenza dell’altro significa – citando Roland Barthes – anche volontà di conoscere se stessi e il carattere del proprio desiderio, la protagonista di questo libro riesce a dare un senso al suo sforzo di interpretazione in quanto “soggetto amoroso”: ci si definisce soprattutto attraverso le sofferenze e l’amore che si riceve nella propria esistenza.
Articolo di Nelly Simone