Il rischio dell’anniversario come “rifugio pecatorum” della memoria
Da 26 anni a questa parte, ogni 19 luglio, ci troviamo a ricordare un anniversario. Molte volte, però, – diciamocelo – gli anniversari sono un lampo. Ed il rischio, per molti, è che la buona pratica del ricordo si trasformi in un atto dovuto, privo di qualsiasi trasporto, privo di qualsiasi reale coscienza del fatto o delle persone in causa. Oggi, per esempio, commemoriamo la strage di via D’Amelio, la morte di Paolo Borsellino e dei cinque uomini della sua scorta.
Come ogni anno, sentiamo i messaggi delle istituzioni, dei politici (bipartisan) che si schierano in memoria del defunto giudice di Palermo. Messaggi sacrosanti, sia ben chiaro, che spesso però attraversano indistinti il flusso caotico delle notizie e dei titoli dei media. Nel caso poi di Borsellino, questi messaggi molto spesso – non ce ne vogliano i diretti interessati – trovano il tempo dell’aria fritta se si tiene conto che una verità completa sui fatti di via D’Amelio non è ancora stata accertata.
E dunque, forse, è bene che oltre ai rapidi titoli si parli più ampiamente – dal nostro modesto punto di vista – della vita di un uomo, al di là della mielosità dei memoriali di circostanza. Dando, infine, anche il consiglio per una lettura.
Vita di Paolo Borsellino ed alcuni consigli di lettura per l’estate
Paolo Borsellino nacque a Palermo nel gennaio 1940. In Italia siamo agli inizi della Seconda Guerra Mondiale. Secondo di quattro fratelli, Borsellino dopo il liceo si iscrisse a Giurisprudenza. Qui dentro conobbe i gruppi universitari fascisti e divenne membro dell’esecutivo provinciale del Fronte Universitario d’Azione Nazionale. Fu poi eletto come rappresentante studentesco nella lista del FUAN “Fanalino” di Palermo, come attestato dal giornalista Umberto Lucentini. Quest’ultimo curò un libro – Paolo Borsellino (San Paolo Edizioni) – assieme ai familiari del giudice, ricco di testimonianze dirette e commenti (che vi consigliamo, per approfondire).
Nel 1963, dopo la laurea con lode in Giurisprudenza, concorre per entrare in magistratura. Si classifica venticinquesimo e diviene il più giovane magistrato d’Italia. Sin da subito viene coinvolto nello studio e nelle indagini sulla criminalità organizzata affiancando, nelle vesti di Pretore, Emanuele Basile, capitano dell’Arma dei Carabinieri.
Dopo l’assassinio di quest’ultimo, a Borsellino viene assegnata la scorta. Nel giro di pochi mesi, intanto, viene costituito per volere del magistrato Rocco Chinnici il “pool antimafia“. Il pool è un gruppo di giudici che avrà il compito di occuparsi esclusivamente dei reati di stampo mafioso. La squadra è composta da Borsellino, Giovanni Falcone, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta. Nel luglio 1983 muore Chinnici, ucciso da un’autobomba.
Negli anni successivi, il pool e Paolo Borsellino incominciano a lavorare sulle dichiarazioni dei primi collaboratori di giustizia, Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno. Ci sanno 366 arresti .
Borsellino fa squadra fissa con Giovanni Falcone, di appena 8 mesi più giovane di lui. Nel 1986 parte il maxiprocesso. Dopo un anno, avrebbe portato a 342 condanne e a 19 ergastoli. Il pool nel frattempo si scioglie.
Nei primi anni ’90, c’è già l’idea da parte di Cosa Nostra di un attentato alla vita di Borsellino. A rivelarlo è il collaboratore di giustizia Vincenzo Calcara. L’uomo sostiene di aver ricevuto il compito di uccidere il giudice dal boss Francesco Messina Denaro. L’attentato però non avviene perché lo stesso Calcara è arrestato prima che si consumi il piano.
Mentre Giovanni Falcone viene trasferito a Roma, Borsellino ottiene il trasferimento dalla Procura di Marsala a quella di Palermo.
L’intervista a Fabrizio Calvi, la morte di Falcone, il processo Borsellino quater e la “trattativa Stato-Mafia”
Il 21 maggio 1992, il giornalista francese di Canal + Fabrizio Calvi (al secolo Jean-Claude Zagdoun) intervista Borsellino. Due giorni prima della strage di Capaci e della morte di Giovanni Falcone. Nel dialogo tra Calvi e Borsellino emergono particolari relazioni tra la mafia e ed un ramo dell’imprenditoria del Nord d’Italia. Borsellino conferma che Vittorio Mangano, “lo stalliere di Arcore”, è la testa di ponte tra la mafia siciliana ed il Nord Italia.
Il 19 luglio Borsellino muore. Ad uccidere è sempre un autobomba, questa volta in via D’Amelio, dove ha casa la madre del giudice. L’intervista di Calvi al giudice sarà mandata in onda solo nel 2000 da Rainews24 nella versione tagliata di 30 minuti. L’originale era di 54 (Riportiamo qui la trascrizione).
Dal settembre dello stesso 1992 iniziano le indagini ed il processo sulla strage. Ci saranno ben 4 fasi, durante le quali vengono incriminati e condannati tra i più eminenti esponenti della malavita legati a Cosa Nostra. Si arriva al quarto filone dell’inchiesta, a partire dalla dichiarazioni di Gaspare Spatuzza che nel 2008 smentirono quelle iniziali (del 1992) di Salvatore Candura e Vincenzo Scarantino. I due malviventi si erano autoaccusati del furto della Fiat 126 che venne fatta esplodere in via D’Amelio. Sarebbero poi stati giudicati entrambi inaffidabili dai giudici.
Ora, nel 2008, il mafioso di Brancaccio Spatuzza si accusa pure lui di aver rubato la 126. Nel marzo 2013 parte il Borsellino quater, che si intreccia con il processo sulla Trattativa Stato-Mafia. Nel 2009, infatti, le dichiarazioni di Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo Don Vito, avevano fatto partire il processo sui rapporti tra Cosa Nostra e lo Stato.
Ciancimino senior sarebbe stato il tramite delle richieste della Mafia – contenute nel papello scritto dai Boss mafiosi e dall’ora capo Salvatore Riina – verso apparati dello stato, tra quali il ROS dell’Arma dei Carabinieri ed il SISDE.
Mentre in queste ore celebriamo la memoria di Borsellino, arrivano a fagiolo le motivazioni alla sentenza dello scorso 20 aprile che aveva portato a condanne eccellenti: dodici anni di carcere gli ex carabinieri del Ros Mario Mori e Antonio Subranni. Stessa pena per l’ex senatore Marcello Dell’Utri e Antonino Cinà, medico fedelissimo di Totò Riina. Otto gli anni di detenzione erano strati inflitti all’ex capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno, ventotto quelli per il boss Leoluca Bagarella.
Potenti. Sicilia anni Novanta
La trattativa dunque c’è stata, e tra gli obiettivi di questa c’era pure quello di bloccare l’operato dei giudici di Palermo, oltre all’abrogazione del 41 bis (il carcere duro per i mafiosi) e alle altre richieste contenute nel papello.
Ed è dunque importante ascoltare, ponderare e valutare molto attentamente il peso della memoria, i messaggi e i memoriali che oggi vengono fatti. Bisogna pesarli attraverso la storia, attraverso i fatti, quelli che abbiamo un po’ rivisto noi oggi con queste righe.
Per avere un quadro completo, di più ampio respiro, più storico e di contesto che giudiziario, una lettura che vi consigliamo è quella di Potenti. Sicilia anni Novanta scritto ancora nell’aprile 1992, nell’epoca delle stragi, dal giornalista Saverio Lodato. Un saggio che è più un racconto. Un racconto di cos’era e cos’è la Sicilia non dalla prospettiva scarna delle indagini e dei processi di mafia, ma da quattro angolature diverse (come quattro sono i capitoli del libro) che ci proiettano nei gangli del Consiglio regionale siciliano, nel mondo dell’imprenditoria e nel clima che si respira nei palazzi di giustizia dopo il maxi processo.
Un libro che per me è un regalo. Un regalo a noi per capire veramente (e non dimenticare) quello che oggi commemoriamo. A volte, senza troppo rendercene conto.
Articolo di Federico Gonzato