L’altra faccia della medaglia dello svilimento artistico dei nostri tempi causato dalla sovraesposizione della vita privata degli autori è data dalla possibilità di creare un concept intorno a un caso coniugale, e di rivenderlo con strategie che farebbero scuola anche alla crew dietro Liberato.
The Carters, d’altra parte, sarebbe un titolo perfetto per l’ennesimo reality di lusso del genere The Osbournes o Al Passo con i Kardashians, fosse altro che qui non ci sono rockstar bollite o top influencer svampite, ma la coppia di artisti più pagata al mondo.
Il dramma della gelosia inizia nel 2016 con l’uscita di Lemonade, disco visual molto più conscious e musicalmente interessante e sofisticato dei precedenti, interamente dedicato alle donne afroamericane, con Beyoncé Knowles nella parte della donna con cui è meglio non scherzare. La traccia Sorry, in particolare, si riferisce a un ipotetico ex che si rifà avanti per chiedere perdono di un tradimento, ottenendo in cambio Queen Bey che gli fa il dito e consiglia di tornare da una Becky with the good hair nei panni della terza incomoda. Traccia che, ovviamente, ha dato adito a tutta una serie di speculazioni, sarcasmo e smentite, per la gioia delle testate di costume, fino alla pubblicazione di 4:44, tredicesimo album di Shawn Carter.
Un disco che ha tracciato una nuova linea nell’evoluzione dell’hip hop, come album senior, genuino esempio di storytelling autobiografico e consapevole per l’artista che più di chiunque altro, Dr. Dre e Snoop Dogg inclusi, incarna la storia dell’hip hop. Dalla prima adolescenza passata senza un padre e in strada a vendere crack, alla scuola frequentata con B.I.G. e Busta Rhymes. Dagli inizi con i pionieri di New York al successo mondiale. From street corner to corner office, dal buio alla luce. Buio che però cova e ritorna nella memoria, mandando in crisi anche il mondo di un uomo di affermato successo e spingendolo ad allontanarsi dagli affetti.
Ecco quindi che nella resa dei conti che questo album rappresenta, Jay Z ammette le sue colpe nella fatidica Family Feud, in collaborazione, ovviamente, con la moglie Bey che impera ovunque nel video del brano. Pace fatta, con Jay finalmente a ruota libera nel rivelare come la coppia di Crazy in Love abbia passato diverso tempo in studio facendo ciò che sa fare meglio come una sessione di terapia matrimoniale, per un progetto fermato solo dall’uscita dei singoli album.
Questa l’unica promozione dietro Everything Is Love, primo album firmato the Carters, uscito a sorpresa con l’annuncio di Beyoncè al termine della data londinese dell’On The Run II Tour. Qui, mentre Bey alza il livello di hype, parte il video di Apeshit. Fuochi d’artificio, album fuori, con gli spettatori che ricevono 6 mesi gratis di Tidal per godersi l’esclusiva. Il video è pazzesco, con scene girate per la maggior parte, ancora una volta, al Louvre, che si alternano a fotografie di assoluta blackness.
Un corto dove l’immaginario sofisticato di Solange incontra lo sfarzo dei Migos, chiamati e pagati solo per gli skrt di rito. Perché sì, Apeshit, singolo di sfondamento dell’album, è un pezzo che flexa, in cui Beyoncé sfoggia un flow da panico giocando (in vero con pecche di credibilità sparse) sulla produzione geniale di Pharrell Williams e rivendicando il proprio successo, mentre Jay Z infila rime magistrali di orgoglio nero, su cui spicca il riferimento al rifiuto di suonare al Super Bowl per solidarietà con Colin Kaepernick. Lo stesso Louvre non è solo una cornice magnifica quanto un simbolo della Francia napoleonica e coloniale, in cui Jay e Beyoncé, che ha origini franco-creole, tornano da vincitori per affermare I can believe we made it.
Chiaro fin da subito quindi che questo non è l’ennesimo featuring di una popstar con un rapper e che questo disco non è solo un regalo ai fan, ma un vero e proprio punto di svolta nella carriera di entrambi. Per Beyoncé in primis, che dopo le intuizioni di Lemonade abbandona la patina da popstar per abbracciare un suono black senza compromessi. E per Jay Z, come vero ritorno hip hop su basi attuali e da classifica, dai tempi dell’enorme Magna Carta Holy Grail, per dimostrare di essere non solo il primo liricista nella Songwriters Hall Of Fame ma anche uno dei più grandi, se non il più grande, nel rap game.
Il disco si apre sulla freschissima base rocksteady di Summer, su cui Beyoncé entra in modo superbo al solito e insieme a Jigga fa la tenerella sulla riconciliazione, fare all’amore in spiaggia e altre cose da pezzo estivo, fino all’outro di Damian Marley:
Love is universal
Love is going to express itself as a form of forgiveness and compassion for each other
Tra squilli di tromba e cori gloriosi va avanti invece la celebrazione in Boss. Comincia il vero egotrip della coppia da 1 bilione di dollari, con Jay Z che lancia frecciatine sparse che potrebbero riaccendere un vecchio beef con il solito bersagliatissimo Drake. L’impronta di Pharrell torna inconfondibile in Nice, uno dei pezzi migliori dell’album, dove Jigga esplode in una strofa incredibile mettendo a tacere la battuta cool della settimana secondo cui Beyoncé rappa meglio di Jay Z. AHAHAH no. Siamo ancora di fronte a uno dei migliori, e a una popstar che può permettersi di affermare If I gave two fucks about streaming numbers, would have put Lemonade up on Spotify, rivendicando la scelta del tempio dell’esclusività dello streaming aka TIDAL, attraverso cui il patron Carter priva i poveri che hanno terminato il periodo di prova gratuito della propria discografia e degli ultimi successi di Beyoncé.
La successiva 713 è totalmente old school: boom bap, loop di piano e Hov che spara rime ripercorrendo gli inizi della storia d’amore con Bey, che nel ritornello fa la cosa più ghetto della sua vita riprendendo gli storici versi, scritti in origine dallo stesso Jigga, di Still D.R.E., dedicandoli alla sua città natale, Houston.
I’m representin’ for my hustlers all across the world
Still dippin’ in my low-lows, girl!
I put it down for the 713, and we still got love for the streets
Un ruolo importante nel salvare/distruggere relazioni spesso lo giocano anche gli amici, di lui, di lei o comuni. Friends è, infatti, la sesta traccia dell’album, prodotta dal canadese NAV con il suo caratteristico tocco notturno e lento tipico delle hit di The Weekend o Drake.
What would I be without my friends?
I ain’t got no understanding
‘Bout them, you might just catch these hands
We fall out and we make amends
Your friends are foes, my friends are goals
L’egotrip riparte sul beat disco anni ’80 di Heard About Us su cui B azzarda dei monellissimi ma delicati skrt skrt da sola, facendo però ciò che sa fare in maniera incredibile, rhythm and blues, fino alla traccia più soulful e conscious dell’album, la toccante Black Effect, una dichiarazione d’amore verso il proprio essere neri, cantata su un sample incredibile. L’ultima traccia è ovviamente il momento topico del disco, la resa dei conti finale tra i due che, su una base da instant classic, risulta come un discorso a posteriori, a pace fatta, per l’autocelebrazione di una delle coppie più influenti del pianeta, di nuovo insieme e on the run, come il tour che li porterà a Milano e Roma rispettivamente il 6 e l’8 luglio.
Non sappiamo quanto ci sia di effettivamente vero nell’intera vicenda, ma grazie a questo concept abbiamo tre album di assoluto valore. Lemonade, 4:44 e, soprattutto, Everything Is Love, ci danno il senso del talento e della personalità necessari per reinventarsi e restare sempre in vetta.
Articolo di Giovanni De Scisciolo