Il film Close Up di Kiarostami non è solo un racconto di cronaca a basso costo, ma un riflesso della società iraniana del dopoguerra che accomuna un disgraziato truffatore e una famiglia borghese, l’amore per il cinema e l’ambiguità del reale.
Nanni Moretti si sveglia in preda all’ansia del lavoro nel cuore della notte. Ascolta il messaggio della segreteria telefonica che comunica gli incassi del Cinema Nuovo Sacher di cui è esercente: la prima del film Close-Up di Abbas Kiarostami ottiene 57 presenze in quattro spettacoli per un totale di 565 mila lire. L’ossessiva attenzione per la programmazione e la pubblicità di questa proiezione non ottiene il successo sperato da Nanni, sconsolato nell’ascoltare i ben più proficui risultati degli altri spettacoli nei cinema di tutta Roma, i quali mostravano al pubblico Il re leone, Il mostro, Quattro matrimoni e un funerale.
Il cortometraggio di Nanni Moretti, intitolato “Il giorno della prima di Close-Up”, segna con ironia la drammatica difficoltà del cinema d’autore nell’affermarsi ai botteghini. Girato sei anni dopo dal capolavoro di Abbas Kiarostami, regista iraniano scomparso il 4 luglio del 2016 a 76 anni, è l’ennesima dimostrazione di stima e vicinanza stilistica tra le due figure.
Kiarostami sceglie come soggetto quello che per il cinema italiano neorealista è stato motore mobile di storie degne dell’enciclopedia popolare: la realtà stessa. Mosso da un episodio di cronaca di un signore che, per scopi imprecisati, riesce a introdursi nella villa degli Ahankah fingendosi il celebre regista Mohsen Makhmalbaf, abbandona i suoi progetti per riprendere in stile documentaristico il processo per truffa al millantatore Hossein Sabzian. Trovatosi a contatto con l’imputato nella prima seduta, richiede il consenso per girare. La sua voce si sente fuoricampo: «Vogliamo fare un film sul processo», dice. «Acconsente?». «Sì, perché siete il mio pubblico». «Come?». «Siete il mio pubblico». «Chi?». «Lei». «Perché io sono il suo pubblico?». «A causa del mio interesse». «Interesse per che cosa?». «Per l’attività artistica, per il cinema». «Abbiamo due camere. Questa ha una lente da primo piano. Sa cos’è un primo piano?». «Sì». «Ce n’è anche un’altra là». «Non me ne sono accorto». «Questa ha una lente da primo piano, l’altra un grandangolo per riprendere il processo. Questa è solo per noi. In prigione lei ha detto che si considerava colpevole, ma solo in apparenza. Questa camera è per lei, per spiegare quegli aspetti che la gente trova difficili da credere».
È in questa prima parte del film che si manifesta la poetica dell’artista. Il primo piano (Close up) che inquadra l’apparenza, l’impostore, e il grandangolo che dall’esterno osserva un povero diavolo così amante del cinema da credere più nella finzione che nella vita stessa. L’alter ego di Kiarostami è il giornalista Farazmand, colui che ha denunciato Sabzian dopo l’incontro nella casa della famiglia Ahankah. Il reporter, come il regista, lavora anche in povertà di mezzi, tanto da dover chiedere in prestito un registratore portatile nelle case dei vicini nel quartiere dopo esseri accorto dello scoop. L’inizio che vede Farazmand e i poliziotti recarsi alla villa dopo la soffiata, anche se pura fiction, è girato nelle strade con attori non professionisti, che introducono lo spettatore in uno scenario quotidiano. I dialoghi nel taxi lasciano il posto alle immagini silenziose che preparano all’ovvio epilogo della scena: l’arresto di Sabzian.
Se il primo quarto d’ora di Close Up rispecchiava la comune narrazione filmica, è il regista stesso a entrare in scena subito dopo: interviene nella storia come un personaggio, intervista l’imputato con il dialogo sopra riportato, segue fisicamente il processo scavando nelle menti dell’auditorio con i suoi primi piani. Il genere documentario classico sembra prevalere fin quando un flashback riporta lo spettatore nella fiction: Sabzian nei panni di se stesso incontra la moglie di Ahankah nell’autobus e si spaccia per il famoso Mohsen Makhmalbaf, ottenendo dei toman in prestito per la realizzazione di un film con i familiari protagonisti.
Kiarostami ricostruisce il contesto attraverso le interviste condotte da lui stesso: da un lato la famiglia borghese vittima della truffa, con i figli laureati e allo stesso tempo disoccupati, e dall’altro lato il povero accusato che con due figli da mantenere e un impiego precario non riesce a trovare i soldi per mangiare. Il “Nuovo Cinema Iraniano” trae da un fatto realmente accaduto uno spaccato della storia del paese dopo la guerra con l’Iraq. Lo status di crisi economica è un movente sufficiente per Sabzian per mascherarsi nel suo idolo in cambio di pasti e denaro. Il protagonista, da persona reale della cronaca a personaggio del film, è abile nel creare una messinscena da autentico director dove, per la prima volta nella sua vita, raggira persone più colte e istruite di lui, godendo del privilegio di appartenere a una classe sociale vantaggiosa.
Sono proprio i problemi personali ed economici del povero truffatore, raccontati citando le sure del Corano e confessando il suo amore per l’arte e il cinema che tanto ha raccontato le sue sofferenze, a convincere la famiglia Ahankah a ritirare l’accusa. Comincia dunque l’ultima scena: Kiarostami inquadra dall’interno della propria auto l’incontro tra il vero Makhmalbaf e Sabzian. Il primo consola le lacrime del secondo, implorante il perdono per la vicenda. Le riprese proseguono inseguendo i due a bordo di una motocicletta mentre si dirigono alla casa degli Ahankah con un vaso di fiori. L’ambiguità dei dialoghi viene a mancare proprio nelle lacrime sincere di Sabzian, su cui la macchina da presa si sofferma per l’ultimo primo piano del film, davanti ai cancelli della villa dove sembra aver ottenuto il definitivo perdono.
Il cinema anti-cliché di Close Up dimostra il suo enorme potere: stabilisce il confine tra realtà e follia del racconto, assume una posizione e una prospettiva per raccontare la storia, stravolge lo sguardo sulla vicenda, come nel poetico finale dove il regista ruba frammenti di bellezza al di là del vetro senza un obbligo morale verso l’accaduto. In quaranta giorni di riprese, dove gli avvenimenti si succedevano vorticosamente, realizza il più atipico tassello della sua filmografia. “Non ho tempo per i film, sono troppo occupato con la vita” recita il tassista a inizio film. Ed è la mise-en-scène della vita il cuore della narrazione.
Se volessimo commentare con barbara cinefilìa, parafrasando Louis Garrel di The Dreamers: ”Kiarostami è il cinema”.
Articolo di Luca Giro
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