Il 4 aprile è uscito un articolo su “Il Fatto Quotidiano” relativo la presenza femminile al Quirinale, recante il titolo “Avere una donna a Palazzo Chigi? Non a tutti i costi”.
Nella prima parte vengono citati un papiro di numeri su numeri (non nuovi alla società moderna) sulla persistente ineguaglianza tra donne e uomini. In primis, le divergenze salariali, per poi passare alle presenze femminili nelle liste dei candidati parlamentari. Non stupisce che il partito avente più donne candidate è Forza Italia, le quali emergono a gran voce durante giornate delle consultazioni su uno sfondo prettamente maschile.
Nel citare dati, l’articolo delinea un panorama italiano molto triste quando si tratta del tema “uguaglianze di genere”. Ecco alcuni stralci utili per capire il mio commento.
La prima analisi è presa da uno studio effettuato da Bankitalia “Uno studio di Bankitalia conferma che – Anno Domini 2018 – cala ma resta ancora “consistente” il divario di ricchezza di genere. In Italia gli uomini hanno una ricchezza netta individuale superiore del 25% a quella delle donne, il doppio della Francia.” Quindi, questo ci espone già un dato preoccupante: le donne guadagnando di meno hanno un potere d’acquisto inferiore, e un altrettanto impatto sul mercato. Conseguenza, diretta ma semplicistica, le donne devono per forza di cosa avere un compagno per aiutarle economicamente. In quanto, anche a parità di mansione, l’uomo guadagnerà comunque di più.
Seconda fila di dati, direttamente acquisita dall’Osservatorio dell’Inps “L’Osservatorio dell’Inps ci dice poi che su 10,19 milioni di pensioni femminili, gli assegni inferiori a mille euro sono 8,7 milioni; gli assegni fino a 500 euro sono 2,8 milioni a fronte degli 1,7 per gli uomini. Dunque le donne sono più povere, sia durante la vita lavorativa che dopo.” Questo dovuto anche al fatto che molte donne sono obbligate, o si vedono come tali, a fare lavori part-time. Pertanto anche in tal caso, i commenti sono pochi e superflui. I dati parlano chiaro.
Per poi concludere con la parte più scientifica, oggettiva e colma di dati sulla presenza di donne e candidate a Palazzo Chigi.
“Il confronto tra il numero delle candidate (4.327, il 45 per cento circa dei posti in lista) e quello delle elette nei due rami del Parlamento (il 35 per cento, appunto) mostra come le donne abbiano avuto più difficoltà degli uomini a conquistare un seggio”.
Ovviamente viene delineato un panorama preoccupante del nostro stivale (con il tacco! Ironia della sorte).
Come ogni anno viene pubblicato un report che tutti dovrebbero leggere, ossia il “The Global Gender Report”, in cui considerando fattori politici, economici e legati all’istruzione e alla salute si stilla una classifica di tutti i paesi del mondo per fotografare la situazione della donna. Come si può notare da questo documento.
Una ricerca che cerca di inglobare ogni aspetto e che sia inclusiva e oggettiva verso ogni singolarità nazionale.
Bene, anzi male. L’Italia nell’anno 2017 si configura all’82° posto su 144 paesi considerati. L’aspetto che più sconcerta è che il posizionamento risulta dopo paesi quali Messico, Madagascar, Vietnam, Tanzania, Tongo, Zimbabwe, Jamaica, Kazakhstan, Mongolia, Croatia e potrei continuare la lunga lista di paesi che tendenzialmente tendiamo a considerare “Sotto sviluppati”, ma che in tale circostanza risultano “Sovra sviluppati” rispetto all’eccellenza italiana. Ma sarebbe tuttavia poco costruttivo se criticassi soltanto. Infatti bisogna sottolineare come dal 2006 ci siano stati dei miglioramenti, soprattutto a livello politico. Si è, infatti, passati dalla 72° posizione alla 46°, aumentando così ruoli politici ricoperti da figure femminili.
Se entriamo nel merito della vicenda, però, si capisce come tale innegabile miglioramento non sia sufficiente e come le conclusioni dell’articolo sopra citato siano mere banalità.
Infatti le donne in parlamento sono il 31% contro i 69% maschili, meno della metà. Il divario tra i sessi aumenta quando si tratta di donne in posizioni ministeriali, 27.8%. Per poi eccedere quando si valuta il numero di donne che sono state elette come capi di stato.
Zero. Numero non da sottostimare o considerare meno rilevante degli altri, in quanto banalmente la Giamaica si delinea al 21° posto grazie alla doppietta di Portia Simpson-Miller, nel 2006 e poi nel 2012. L’India stessa, a livello di percentuali di anni con presidenti donne al governo, si ritrova alla terza posizione con il 20,5% contro i soli 29.5% di anni con uomini. Non ho preso apposta l’Islanda o altri paesi scandinavi perché la frase fatta di critica sarebbe stata troppo scontata.
Con dati sotto mano si nota come l’Italia oggettivante sia ancora molto arretrata. D’altronde non possiamo neanche colpevolizzare la politica. Lippmann primo di tutti sosteneva come i politici, tramite i media, formassero le loro opinioni tramite stereotipi forniti dall’opinioni pubblica. Dunque, facile collegare come la cultura abbia un grande peso in questo senso e come l’interesse dei giornalisti, intellettuali ed esperti, debba mettere maggiore luce alla questione, in maniera seria e chiara.
La società la si cambia partendo dalla cultura, quale miglior modo se non tramite il linguaggio (aspetto che ho già trattato in un precedente articolo)?
Ritornano dunque all’articolo pubblicato nelle settimane passate, visti i recenti fatti e i dati appena illustrati cerchiamo di deostruirne il discorso.
L’autrice (una donna, ebbene si) dichiara a fine articolo “La scelta di una donna sarebbe benvenuta, ma non a tutti i costi. Molte (e molti) hanno festeggiato l’elezione di Maria Elisabetta Alberti Casellati alla guida del Senato, la prima volta nella storia repubblicana. Basta indossare la gonna per dimenticare Ruby nipote di Mubarak e l’appoggio alle leggi vergogna? La presidente del Senato, nel 2013, marciò sul Palazzo di Giustizia di Milano, con l’allora segretario senza quid Alfano, contro le toghe che volevano eliminare Berlusconi per via giudiziaria.
Aggiungendo che non è una questione di uomini o donne e che “le bandierine non servono e quasi sempre nascondono una fregatura.”
Il 18 aprile Maria Elisabetta Alberti Casellati ha ricevuto l’incarico dal Presidente della Repubblica per il nuovo governo esplorativo. Mi domando a seguito delle dichiarazione che cosa la giornalista potrebbe commentare al riguardo.
Innanzitutto, visti i dati menzionati, l’Italia ha bisogno di una figura femminile al potere. Non starei a valutarne la “bandiera” ma piuttosto la competenza nel lavoro. Credo che sino ad ora abbiamo visto presidenti di tutti i colori e i risultati, a sentito dire, la maggior parte delle volte poco soddisfacenti. Dunque, sbilanciandomi in maniera provocativa potrei sostenere che il partito passa in secondo piano se poi non si è competenti nell’eseguire scelte, nonostante si sia uomini. Quindi, a seguito di questa esperienza momentanea gli italiani potranno poi sostenere l’eguaglianza di competenza (o incompetenza) tra generi.
Un secondo punto da considerare e che forse meriterebbe una più lunga trattazione, è quella delle quote rosa. Mi spiego meglio e cerco di farlo in poche righe. Prendiamo la legge sulle vaccinazioni obbligatorie. Ritengo che se si è arrivati a questa decisione è perché ci fosse un mancato adempimento e dunque un pericolo sanitario. Dunque, per cambiare una situazione sociale, bisognava partire dal trasformare il pensiero comune. Per farlo, almeno in Italia, (e qui eccedo in democraticità!) bisogna imporre un atteggiamento. Lo stesso con la questione di genere, per cambiare l’idea sulla condizione femminile, bisogna imporre temporaneamente gli strumenti per giungere ad una parità.
La candidatura della Casellati non è frutto di quote rosa ma per tanto bisogna interpretarla sotto questa chiave di lettura, ossia, se vogliamo avere miglioramenti bisogna iniziare facendo piccoli passi.
L’elezione della prima, in primis, donna Presidente del Senato della Repubblica è da considerarsi come un inizio, decontestualizzandola dal partito di provenienza.
Altrimenti si dovrebbe sin da subito effettuare lo stesso trattamento verso i colleghi dell’altro sesso, cosa che ovviamente non si fa.
Dunque, io gioisco di questa vittoria perché è da considerarsi come il primo passo verso una rivoluzione sociale, non violenta, silente che piano piano subentra e si normalizza nella cultura e quotidianità di ognuno di noi.
Ci tengo a concludere con una frase che fa riflettere della filosofa ungherese. Agnes Heller conclude così la sua opera “Il lungo cammino delle donne. Dall’emancipazione alla partecipazione”:
Cos’è la partecipazione nel senso ampio del termine?
Collaborazione.
Collaborazione a cosa?
Alla responsabilità verso il nostro mondo, mediante l’adesione al lavoro di tutte le istituzioni che si fanno carico di esso.
Il lungo cammino della liberazione femminile conduce dall’emancipazione alla partecipazione”.
Articolo di Giada Pasquettaz