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3 Maggio 2018 / Musica

La lotta scudetto dell’SSC Nuova Napoli

 

Rud Krol, Bruscolotti, (DeNapoli), Caffarelli (Ferrara), Criscimanni (Dirceu), Carannante, Celestini, Pecci, Bagni, Corradini, Castellini, Paolo Fiume, Incocciati, (Ferrara) Volpecina, (Luca Fusi) RamonAngel Diaz, Filippo Citterio, (Ciro Muro) Tebaldo Bigliardi, Penzo, Palanca, DanielBertoni, Luciano Sola. Corrado Ferlaino. Moreno Ferrario, (Carnevale), Romano, Alemao, (Garella) Giordano, Renica (Massimo Crippa), Careca, Ciro Muro. Diego Armando Maradona. Goal.

Se vi chiedessi ora quale è stata la miglior band italiana di sempre le risposte sarebbero,ovviamente, varie. Qualche nerd andrebbe a colpo sicuro su protagonisti del prog quali gli Area o Il Banco, un over trenta che “vive d’emozioni” citerebbe una storica formazione di Vasco, mentre un giovane ardito potrebbe buttarla sull’indie rock (che fu). Se, invece, stringessi il cerchio sugli appassionati di black music, siano essi jazzisti o teste hip hop, specie se a qualche km a sud del Po, la risposta sarebbe per buona parte una sola.

“Buonasera a tutti anche a nome di Tullio De Piscopo, Tony Esposito, Rino Zurzolo, alle tastiere c’è Joe Amoruso e o’ sassofon’ James Senese. Io suono la chitarra e canto in napoletano quindi se qualcosa non la capite nun fa nient’, l’importante è il sentimento.”

Al microfono c’è ovviamente Pino Daniele, l’anno è il 1982 e tour è quello di Vai mo’. Un disco che segue l’affermazione e il successo di Nero a metà, con una formazione molto più essenziale e, ovviamente, interamente napoletana. Una vera e propria all stars del Neapolitan Power, una squadra di pionieri capitanata dal nero a metà per eccellenza e leader della band simbolo del movimento, James Senese dei Napoli Centrale. Quella di Vai mo’ è una formazione eroica, già capace nelle precedenti esperienze dei singoli di scardinare schemi e stereotipi legati a qualsivoglia questione meridionale e di creare un linguaggio tanto raffinato quanto immediato, fatto di groove e tradizione, tale da arrivare a tutti alimentando profondità e significato, nell’universo anni ’70 dominato dalla verbosità dei cantautori. Basta ascoltare l’omonimo debutto dei NC per rendersi conto del potere critico che l’accostamento di melodie arcadiche e monotonia industriale conferisce  a un semplice lamento blues che racconta l’abbandono forzato del lavoro nei campi.

Parliamo quindi di musicisti pronti a prendersi un successo indelebile nella prima metà degli anni ’80, con Pino Daniele e come solisti. Sono infatti quasi contemporanee a Vai mo’ le hit Kalimba De Luna di Tony Esposito e Stop Bajon di Tullio De Piscopo, perno dei dj set da Frankie Knuckles a Jamie XX. Sono passati più di trent’anni, l’immaginario di Napoli dei film di Troisi ora si divide fra gli antieroi di Gomorra e l’ironia dei Manetti Bros, e un gol di Koulibaly ha riacceso la lotta scudetto come un miraggio prima della batosta fiorentina (ma la matematica mette in ballo sempre nove punti con cui tutto può ancora succedere). In tutto questo, una colonna sonora, ancora una volta, clamorosa. Mentre tutto intorno è retromania, il buio intorno al progetto Liberato ha acceso i fari su un mondo tanto radicato nelle tradizioni quanto eternamente pieno di vita e freschezza. Se 9 Maggio ha aperto una serie di hit in cui “Mura Masa incontra il neomelodico“, l’anonimato dietro alle colonne sonore dei video di Francesco Lettieri ha spinto molti a scandagliare la scena musicale partenopea in cerca del volto del mistero.

Questa la cornice perfetta in cui, a pochi mesi di distanza dal successo che ci ha lasciati “sott’ a’ bott’ impressiunat’“, si è andata a inserire la leggerezza dolce amara di Ammore e Malavita. Un musical che gioca con i luoghi comuni reinventandoli, come hanno fatto le stesse voci del cast nel corso della loro carriera. Ivan Granatino e Franco Ricciardi sono, infatti, Liberato ante litteram. La loro musica è simbolica di quanto le radici neomelodiche delle periferie del sud possano uscire dal ghetto e tornare attuali incontrando il mondo, in un paradigma proprio della black music. Allora, che sia Scampia, Bristol, Marianella o il Queensbridge, la risposta a una nuova cultura sarà sempre immediata e incredibilmente reale, come a un suono che è sempre stato lì, perché, citando Lina Sastri, “Napoli è un regno e il suo popolo si muove come il mare”.

Reale, quindi riconosciuto all’estero, come il dub degli Almamegretta dai Massive Attack. Sincero, quindi iconico e distinguibile, come lo street rap dei Co’Sang in Chi more pe’ mme o come Vale Lambo nella scena trap italiana. Black music come nutrimento, stele di Rosetta per amalgamare culture diversissime e intrinseche nella tradizione napoletana, tra melodie orientali e percussioni africane. Questo il segreto che restituisce quella particolare raffinatezza che si cela persino dietro le etichette più street, e si manifesta senza filtri nelle prove in inglese del future soul di Linda Feki aka LNDFK, che napoletana ma cittadina del mondo lo è nel dna. Il suo ep etereo e dal groove inconfondibile, Lust Blue, ha fatto gridare al miracolo i fan di Anderson .Paak e Noname. Stessa vocazione internazionale per i più danzerecci Yombe, eredi diretti dell’esperienza disco Fitness Forever, che tanto ci hanno fatto ballare nei festival estivi.

Se band come queste ultime ci fanno sognare un richiamo globale e una California che sentiamo più vicina, il cerchio della Nuova Napoli si chiude con il sapore retrò del suonare un’epoca, filosofia alla base del lavoro dei Mystic Jungle Tribe, come dell’ultimo lavoro del duo di producer partenopei ma di stanza a Berlino, Nu Guinea.  Nuova Napoli, come il festival intorno a cui prende forma la trama di No grazie, il caffè mi rende nervoso, film di cui si ricorda lo storico siparietto del “t’ scass o’ sassofon’ nfaccj” tra James Senese, impegnato con le prove dei Napoli Centrale, e un impacciato giornalista impersonato da Lello Arena. Album figlio di un incredibile lavoro di diggin, che ha portato alla luce dischi pazzeschi e underrated e vere e proprie chicche da Discogs (come questa, che i Nu Guinea ci hanno regalato sul loro canale youtube), per due producer abituati a manipolare suoni dal mondo come la batteria di Tony Allen (scusate se è poco).

Il singolo Je Vulesse è già una dichiarazione di intenti, afrodisco con quell’incedere moroderiano che non lascia spazio a dubbi nel momento in cui entra il classico vibrato dal sapore orientale che è marchio di fabbrica della tradizione napoletana. Il testo poi è un estratto dalla poesia di Edoardo De Filippo “Je Vuless Truvà Pace“, un’illustre domanda di pace a se stessi e a una città a Ddoj Facce, due facce, prendere o lasciare.

Una città in cui retromania significa ancora pura invenzione, perché la nostalgia è parte integrante del sentire popolare, “appocundria“, termine giunto fin sulle pagine della Treccani da un brano di Pino Daniele che indica proprio una “profonda malinconia”. Quella di Pareva Ajere, brano conclusivo dell’album, la malinconia di un popolo che sta for, inquieto, alla costante ricerca di qualcosa che forse non c’è.

Articolo di Giovanni De Scisciolo

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