Quello che l’inter-korean summit ci insegna sulla politica internazionale
Il 27 aprile 2018 è stato un giorno storico per l’umanità. Nella mattina di venerdì infatti, i due leader dei paesi più simili e opposti del mondo si sono incontrati, nella cornice del villaggio di Panmunjom, sancendo un punto di svolta della cui portata si discuterà ancora a lungo. Kim Jong Un e Moon Jea In, rispettivamente il leader della Repubblica Democratica Popolare di Corea (Nord) e il presidente della Repubblica di Corea (Sud) si sono incontrati per suggellare, con una vigorosa stretta di mano, l’inizio del summit inter-coreano, il terzo dal 1953 ad oggi. Prima di venerdì, solo altri due eventi simili avevano avuto luogo: il primo nel 2000, tra Kim Jong Il (N) e Kim Dae Jung (S), e il secondo nel 2007, sempre tra Kim Jong Il, e Roh Moo Hyun.
La portata di questo summit però non può essere paragonabile a nessuno dei due precedenti episodi. Innanzitutto perché sono passati ben 11 anni dall’ultimo incontro tra i leader delle due penisole, poi perché in entrambi i precedenti casi ci sono state gravi mancanze e interferenze politiche o istituzionali che hanno parzialmente inficiato la resa positiva degli accordi sanciti, soprattutto in un’ottica di lungo periodo. Ma la ragione precipua per cui il terzo summit inter-coreano sorpassa per importanza e intensità i due precedenti è fondamentalmente una: ha sancito la vittoria del Costruttivismo sul Realismo e Neorealismo nelle Relazioni Internazionali.
Ad un osservatore esperto, non sfuggirà infatti il tortuoso e lungo percorso che ha portato ad un evento tanto inaspettato quanto giubilare come quello di venerdì, ed è proprio nella difficoltà dei presupposti che si rivela l’importanza capitale dell’evento. Poco più di un anno addietro infatti, e fino a pochi mesi fa, nella penisola coreana il clima non era solo teso, era drammatico. Esperti e analisti di tutto il mondo hanno più volte temuto lo scoppio di un conflitto, complici il comportamento irresponsabile del Presidente degli Stati Uniti, con sua cronica necessità di suggellare sentenze sul web, da un lato, e l’imperterrita politica di potenza nucleare di Kim Jong Un dall’altro. Ci sono state sanzioni gravissime e pesantissime, tensioni con la Cina, schieramenti globali e minacce fatte nelle location meno appropriate. A Mr. Trump è stato permesso di parlare di guerra, morte e distruzione in una venue come quella del palazzo di vetro delle Nazioni Unite, mentre i ranghi dei nordcoreani si serravano sempre di più attorno al loro leader e alle loro intransigenti posizioni.
Eppure gran parte delle tensioni, delle paure e della conflittualità latente che si sono riversate nella penisola coreana in questi ultimi mesi, e che paradossalmente vi convivono da decenni, si sono sciolte con la stretta di mano di due fratelli, due uomini che rappresentano stati diversi ma parlano la stessa lingua, e che stanno imparando a giocare la partita della storia dalla stessa parte.
L’inizio dell’incontro è stato ai limiti del commovente per la sua semplicità: i due leader si sono andati incontro a cavallo del 38° parallelo, a piedi, pronti a tendersi la mano, e insieme hanno attraversato il confine, posando per i fotografi nei rispettivi paesi. I convenevoli di contorno poi, non sono mancati, e nella più classica delle tradizioni coreane il gioco dei simboli ha rivelato molto più di quanto noi siamo in grado di comprendere. La cravatta di Moon Jae In ad esempio, blu come il colore della bandiera sotto il cui vessillo hanno sfilato gli atleti di entrambi gli stati ai Giochi Olimpici invernali di Peyongchang, o il completo in stile Maoista di Kim Jong Un, tanto per partire dal vestiario. I due uomini poi, hanno attraversato il confine mano nella mano, insieme, sancendo il ritorno a casa del leader nordcoreano, primo della sua terra ad andare a sud del 38° dalla fine della guerra di Corea, 1953. A piedi, si sono poi diretti verso la ‘Peace House’, altro edificio simbolo della Zona Demilitarizzata, dove Kim Jong Un ha firmato il classico libro degli ospiti, imprimendovi una dedica che non ha nulla di convenzionale. Le sue parole, tradotte, significano: “Una nuova Storia inizia oggi, punto di partenza per un’era di Pace”. Epigrafe questa, tanto concisa quanto simbolica, che sancisce ufficialmente l’inizio del summit, e dei confronti verbali tra i due leader, la cui agenda fittissima di temi da trattare è sicuramente disponibile in altre sedi, e con analisi molto più approfondite e pertinenti di quelle che si possono qui elencare. Non è questo infatti l’aspetto più importante dell’incontro. Anche se può stupire, non è quello di cui si è discusso che conta, ma il fatto che se ne sia discusso, e lo si è fatto insieme, faccia a faccia, alla pari, leader a leader, in un clima di festa, giubilo e eccitazione, in una cornice simbolica, finalmente riempita di un contenuto degno del suo passato.
Non solo l’Asia, ma il mondo in generale, venerdì mattina ha appreso una grande lezione sulle dinamiche della politica mondiale. I due coreani ci hanno insegnato che il Costruttivismo ha vinto, e può vincere ancora, ora e sempre, anche nell’ora più buia. Le idee, le persone, il dialogo, sono questi gli elementi che danno forma e colore alle Relazioni Internazionali. Non importa quanto il clima sia teso, quanto tempo sia passato e quanto possa essere difficile sedersi faccia a faccia con la propria nemesi, se c’è la volontà, pace e dialogo sono possibili. Qualsiasi neorealista, o filo neorealista, mesi fa non avrebbe scommesso un quarto del proprio valore sulla possibilità che questo incontro avvenisse, e si celebrasse in un clima di tale gioia, e con una profonda naturalezza, da fare invidia anche alle alleanze più consolidate. È stato così impartito a tutti un grande insegnamento, soprattutto ai teorici politici dell’Occidente, da due leader asiatici che hanno insegnato loro cos’è davvero il Costruttivismo, cosa significa veramente che le idee possono cambiare il mondo, e la volontà spostare le montagne. E l’hanno fatto in uno degli ‘hot point’ della geopolitica mondiale.
Alexander Wendt nel 1992 scrisse: “L’anarchia è ciò che gli stati ne fanno”, mentre nelle pagine di un classico manuale di Relazioni Internazionali si legge:
“Grandi cambiamenti diventano possibili, dal momento che individui e stati possono cominciare a pensare a sé stessi, e ai rapporti in cui sono coinvolti, in modi nuovi, e possono dunque elaborare nuove norme radicalmente diverse dalle precedenti.” (Sorensen)
È questo ciò che è successo venerdì in Corea: individui e stati hanno pensato a sé stessi in termini diversi da quelli che il contesto internazionale stava imponendo loro, e hanno preso in mano il loro presente, decidendo in che modo, come e quando far cambiare direzione al loro futuro. Era Vico, un altro costruttivista, che ci insegnava come la storia non sia un processo evolutivo esterno agli affari umani, ma al contrario che gli individui ne sono la causa immanente, l’evidenza empirica che la muove. In poche parole:
“Gli stati sono creazioni artificiali, e anche il sistema degli stati lo è: è il prodotto delle azioni di uomini e donne che, se lo vogliono, possono modificarlo e farlo evolvere lungo nuove direttrici.”
Non è questo il luogo dove analizzare quali siano le nuove linee evolutive del pensiero politico in Corea. Nessuno qui si può considerare esperto, ed è difficile se non imprevedibile capire da ora a cosa porterà il terzo summit inter-coreano. Però tutti possiamo imparare una lezione fondamentale da questi eventi: che siamo noi, le nostre idee, e la nostra volontà a muovere le fila della macchina sovrastatale. Le relazioni internazionali non sono anarchiche o pacifiche, sono come gli individui, gli stati e i leader vogliono strutturarle. Seppur mediato da infiniti filtri, è il cittadino che resta, e deve restare, il centro del sistema. Le sue idee daranno forma alle direttrici della politica, nazionale e internazionale. E chi smette di crederci, perde la capacità di esercitare il suo spirito critico, nonché la facoltà di mettersi a servizio dell’altro per creare, questa volta davvero, una comunità internazionale dove nessuno viene lasciato indietro, e tutti possono fare la differenza.
Resta da dire solo: grazie. A due nazioni sorelle che stanno iniziando a guardarsi con sempre meno odio. A chi crede ancora che la pace sia un valore fondamentale per la prosperità del singolo e della collettività. A chi ha il coraggio di vedere cose che nessun’altro vede, e la tenacia di realizzarle. Non so di quale altro scandalo si parlerà tra qualche mese, ma so che oggi, abbiamo tutti imparato qualcosa.
Articolo di Maria Giulia Minnucci
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Per saperne di più:
https://www.internazionale.it/bloc-notes/haeryun-kang/2018/04/27/corea-incontro-storico
https://edition.cnn.com/2018/04/27/asia/read-full-declaration-north-south-korea/index.html?ofs=fbia
https://www.aljazeera.com/news/2018/04/koreas-summit-latest-updates-180427050145078.html
https://www.nknews.org/2018/04/two-koreas-agree-to-end-armistice-agreement-sign-peace-treaty/
http://www.atimes.com/article/kim-crosses-border-greeted-by-moon-as-inter-korean-summit-begins//
https://www.bbc.com/news/world-asia-43914208
https://www.theguardian.com/world/2018/apr/26/korean-summit-everything-you-need-to-know
https://www.nytimes.com/2018/04/26/world/asia/north-south-korea-summit.html