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bambini africani con bandiere cinesi

15 Aprile 2018 / Politica

Djibouti è la chiave di volta della Cina, in Africa e nel mondo

Il presidente del Djibouti Ismail Omar Guelleh, a sinistra, e il presidente della Repubblica Popolare Cinese Xi Jinping a destra. Fonte: chinanews.com

Il presidente del Djibouti Ismail Omar Guelleh, a sinistra, e il presidente della Repubblica Popolare Cinese Xi Jinping a destra. Fonte: chinanews.com

Nel settembre del 2013, quando il presidente Xi Jinping ha svelato per la prima volta la sua idea di un progetto infrastrutturale che collegasse Asia ed Europa, la ‘One Belt One Road initiative’, nessuno si sarebbe mai aspettato i risvolti a cui la nuova via della seta ci ha ormai abituati negli ultimi anni. Anzi, al contrario, l’idea appariva sicuramente accattivante, ma priva di uno schema logico generale, che ne prevedesse step concreti e progressivi o una previsione attendibile di realizzazione. Tra gli esperti internazionali si iniziò così a considerare la OBOR come l’ennesimo strumento di propaganda del regime di Xi e compagni, che vendevano l’idea di un maxi progetto al resto del mondo tanto quanto alla popolazione cinese, in modo da farsi tronfi di una grandezza che serviva principalmente ad accrescerne lo status, sia in patria che all’estero. Ma chiunque sottovaluti l’efficienza e la preponderanza cinese, oggi come nei secoli passati, commette un grave errore, e lo dimostrano gli innumerevoli passi avanti compiuti dal drago rosso non solo nell’ambito di investimenti e infrastrutture, ma anche e soprattutto nel campo dell’hard-power. Con alle spalle il grande disegno della via della seta infatti, negli ultimi cinque anni la leadership del paese ha iniziato a concretizzare investimenti e situazioni di cooperazione politica, che rimandano senza ombra di dubbio al disegno più grande e ambizioso di collegare Asia, Africa, Europa e Medio Oriente tramite due corridoi infrastrutturali estesi via terra e via mare al fine di agevolare commercio, comunicazioni e spostamenti lungo l’asse est-ovest. La OBOR è diventata così un paradigma del nuovo modello cinese nel mondo, dell’idea di globalizzazione moderna e di quello che si potrebbe ottenere sotto l’egida cinese nell’ambito della politica e del commercio internazionali. C’è però tuttavia anche un’altra faccia di questa accattivante medaglia, e si tratta della crescente presenza militare della Cina, che è andata di pari passo con l’impegno e la proiezione economica del paese nel mondo. Per mettere in sicurezza i propri interessi, infatti, i membri del politburo cinese hanno iniziato lentamente ma inesorabilmente a proiettare la loro capacità militare lungo le rotte dell’OBOR, portando avanti un processo sicuramente meno decantato ma altrettanto rilevante e necessario al fine di realizzare l’ambizioso corridoio commerciale. L’assertività cinese è oggi un concetto che va al di la delle supposizioni degli studiosi, e si concretizza soprattutto con l’aumento della spesa pubblica per gli armamenti, la creazione di punti di controllo e comando militari nel mar cinese meridionale e nell’oceano indiano, e soprattutto nella nascita di una vera e propria base della marina cinese (PLAN) in Africa. Nel gennaio 2016 infatti, è stato annunciato il raggiungimento di un accordo per l’apertura di una base di supporto cinese in Djibouti, piccolo paese del corno d’Africa legato al colosso asiatico dal 1979.

cartina djibouti

Cartina geografica del Djibouti e delle rispettive basi militari cinesi e statunitensi. Fonte: Der Spiegel

Nel più classico degli schemi cinesi infatti, dopo decenni di rapporti commerciali e investimenti sbilanciati a favore del paese africano, si sono intavolate delle trattative riservate che hanno portato all’apertura l’11 luglio 2017 del primo vero impianto militare del paese fuori dal continente asiatico. Dopo un solo anno dall’annuncio ufficiale, viene così inaugurata la nuova base cinese di Doraleh, alla cui guida si trova il Capitano Liang, uomo dall’esperienza militare comprovata, uno dei primi portavoce della marina cinese, dislocato precedentemente sia in Liberia per le operazioni di peacekeeping, che in Russia e Stati Uniti a capo di una serie di esercitazioni militari atte ad incentivare la cooperazione marittima internazionale. I cinesi entrano così nel panorama delle grandi potenze anche sotto il profilo militare, e si stabiliscono a pochi chilometri da Camp Lemonnier, base americana in Djibouti aperta a seguito dell’attentato dell’11 settembre e della guerra in Iraq.

Tuttavia, più che la base in sé, quello che rimane particolarmente degno di osservazione è il modus operandi con cui la Cina ha affondato le sue radici nel paese. Innanzi tutto, ad una prima rapida osservazione, risulta chiaro come ciò che il Djibouti può offrire si riassuma in un unico concetto: posizione geostrategica. Il paese infatti versa in uno stato di arretratezza grave, e non vanta nel suo arsenale alcun tipo di risorsa o materia prima che possa servire da richiamo per i grandi investitori internazionali. Eppure, la leadership cinese ha promosso e incentivato una serie di progetti multimilionari che hanno portato alla realizzazione di un nuovo porto, due nuovi aeroporti, uno a scopo civile e l’altro a scopo militare, una ferrovia che collega Djibouti City, la capitale, con l’Etiopia, principale partner commerciale del paese, un impianto di estrazione del sale al lago Assal e diversi viadotti atti al trasporto di acqua, petrolio e gas, tanto per citare solo alcuni esempi. Questi accadimenti rappresentano un decisivo balzo in avanti rispetto ai rapporti tra Cina e paesi africani a cui siamo stati abituati sin dai tempi della conferenza di Bandung, e vogliono testimoniare la volontà della Repubblica Popolare di incentivare la cooperazione sia sotto il profilo economico, che sotto quello militare, e allo stesso tempo alzare la posta in gioco nei rapporti bilaterali. La presenza sinica in Djibouti diventa così unica, rendendo il paese una sorta di scommessa sulla quale si gioca il futuro della Cina in Africa e in larga parte il successo della via della seta. La capacità cinese di stabilire un rapporto solido e duraturo non solo con le élite ma anche e soprattutto con gli abitanti del paese ospite viene dunque messa alla prova per la prima volta, rappresentando una delle scommesse internazionali più alte e centrali degli ultimi decenni. Ma se vinta, questa scommessa avvicina la Repubblica Popolare Cinese al suo più grande progetto, all’obiettivo dietro molte mosse politiche e diplomatiche degli ultimi dieci anni: la 21st Century Maritime Silk Road. L’enorme network internazionale, la sezione marittima dell’OBOR, è infatti forse la più ambiziosa e rilevante parte dell’iniziativa, non solo a livello economico, ma anche e soprattutto politico e geopolitico. La base di Doraleh rappresenta infatti senza ombra di dubbio un primo importante passo nel processo che vuole condurre la Cina alla realizzazione delle sue aspirazioni politiche e militari a livello globale. Da molti osservatori è già stata definita la ‘perla più bella della collana’, con un chiaro riferimento alla ‘string of pearls’, quella serie di punti di controllo che battono bandiera cinese, e che si snodano lungo tutto il più importante asse commerciale marittimo del mondo, quello che attraversa lo stretto di Malacca e porta approvvigionamenti non solo in Cina, ma anche al resto del continente.

La ricostruzione delle due principali rotte di OBOR: ‘new silk road economic belt’ e la ‘new maritime silk road’. Fonte: thechinafricaproject.com.

La ricostruzione delle due principali rotte di OBOR: ‘new silk road economic belt’ e la ‘new maritime silk road’. Fonte: thechinafricaproject.com

L’accattivante ‘win-win strategy’ messa in campo nel caso del Djibouti viene così spinta all’estremo, con il rischio però che a rimetterci sia l’autonomia del paese. I prestiti a tassi agevolati infatti, andranno comunque restituiti, presto o tardi che sia. L’eccessivo indebitarsi potrebbe portare il paese africano a dover cedere parte del controllo, e di conseguenza dei guadagni, di queste nuove infrastrutture per provare a saldare il debito contratto con i partner cinesi, vanificando almeno per i prossimi decenni molti degli sforzi di integrazione e contrattazione fatti in precedenza. La dipendenza dal colosso asiatico diventerebbe tale da innescare un circolo vizioso in cui a guadagnarci sono i cinesi stessi, che si sobbarcano di un grosso investimento iniziale, ma poi ne gestiscono non solo la realizzazione, ma anche la gestione e gli introiti. Per questo motivo, la Cina ha cercato più volte di rendere l’integrazione tra la popolazione e le sue aziende il più fruttuosa possibile, in modo da apparire come una presenza benigna e catalizzante per l’economia del paese. Tuttavia, c’è ancora molta strada da fare in tale ambito, e anzi, le polemiche sorte negli altri paesi africani, come ad esempio in Angola, precedono la fama cinese, e ne anticipano già i tratti peculiari. Se Pechino è seriamente intenzionata a voler iniziare la sua espansione nel mondo partendo proprio dall’Africa, dovrà istruire i suoi emissari a mettere al primo posto gli interessi del paese ospite, e a condividere non solo i rischi, ma anche gli interessi e i guadagni in ballo.

In questo quadro, la presenza militare diventa un segnale ancora più forte della direzione che stanno prendendo le relazioni Cina-Djibouti, anticipandoci già che parte della scommessa può considerarsi vinta. L’élite comunista infatti si guarda bene dal rivelare ai più le vere implicazioni che si celano dietro ad un passo strategico così importante, cercando di minimizzare la presenza militare, e giustificandola come punto strategico per difendere gli interessi economici dal paese nel continente, e coordinare e gestire le operazioni di ‘peacekeeping’. Se questi ultimi due aspetti sono innegabilmente veri, non si può però chiudere un occhio sulla ‘bigger picture’ che questa mossa strategica lascia trapelare. Del resto, oramai si parla sempre più apertamente di uno shift ai vertici della leadership internazionale, dove gli Stati Uniti di Trump perdono terreno a favore non solo della Cina, ma soprattutto del modello cinese di condivisione e spartizione delle responsabilità globali. Sicuramente nessuno ad oggi ha una risposta giusta per la domanda ‘cosa ne sarà del futuro del mondo?’, ma una cosa è certa: parte di quel futuro si gioca nel continente africano, in un piccolo paese del corno d’Africa popolato da tante persone quanti cammelli, che si affaccia pacifico sul golfo di Aden, e che è diventato la chiave di volta della proiezione cinese nel mondo.

Articolo di Maria Giulia Minnucci
Per saperne di più:

https://www.reuters.com/article/us-china-djibouti/china-grants-economic-aid-to-djibouti-site-of-overseas-military-base-idUSKBN1DN126

https://www.huffingtonpost.com/joseph-braude/why-china-and-saudi-arabi_b_12194702.html

http://www.spiegel.de/international/world/djibouti-is-becoming-gateway-to-africa-for-china-a-1191441.html

http://nationalinterest.org/feature/what-does-china-want-djibouti-23827?page=3

https://thediplomat.com/2016/10/chinas-experiment-in-djibouti/

http://www.scmp.com/news/china/diplomacy-defence/article/2121333/china-offers-loans-djibouti-they-vow-establish-closer

https://www.nytimes.com/2017/02/25/world/africa/us-djibouti-chinese-naval-base.html

https://jamestown.org/program/chinas-overseas-military-base-djibouti-features-motivations-policy-implications/

https://www.vox.com/2016/4/25/11503152/shipping-routes-map

https://www.reuters.com/article/us-usa-china-djibouti/significant-consequences-if-china-takes-key-port-in-djibouti-u-s-general-idUSKCN1GI2V0

https://gbtimes.com/china-and-djibouti-to-seek-strategic-diplomatic-ties

http://www.eastasiaforum.org/2017/08/14/china-joins-the-crowd-in-djibouti/

http://www.chinaafricaproject.com/podcast-china-africa-obor-maritime-silk-road-matt-ferchen/

 

 

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