“Nino non aver paura di tirare un calcio di rigore… non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore..”. Forse la più eloquente e, al tempo stesso, la più semplice metafora che si potesse inventare per descrivere egregiamente cosa sia la vita di chiunque di noi.
La vita è come una infinita serie di calci di rigore. Ogni giorno ti svegli e sai che dovrai prendere una decisione fondamentale, decisiva, che influenzerà tutte le altre prese in seguito. Sai che se lo fallisci, ci saranno delle conseguenze, se invece segnerai ti rivolgerai verso l’ennesima prova del destino un poco più ottimista. E così via…
Il testo della canzone continua non senza un velo di malinconia che si può ritrovare nella nostalgia dai versi scritti da De Gregori e soprattutto nei solenni arrangiamenti della canzone. Il calciatore, il pallone, la scelta di dove tirare. Non sai dove, non sai come, sai solo che sei lì perché ci credi, perché sei convinto che quel pallone sia la decisione più importante della tua vita e tu devi essere lì, poco importa se lo sbaglierai, sappi che dovrai comunque essere fiero di avere avuto il coraggio di provarci.
Questa, profanamente parlando, è la metafora utilizzata dal cantautore romano per dare una interpretazione estremamente veritiera di ciò che per lui (e per molti noi) sia la vita.
Che differenza c’è però tra chi tira e chi si trova dall’altra parte? Noi vediamo sempre la “storia” dalla nostra prospettiva, immedesimandoci continuamente in colui che deve decidere del proprio destino sapendo comunque di poter contare sull’appoggio di altri compagni (nel migliore dei casi 4), di avere sì il peso delle scelte gravoso sulle proprie spalle, ma sapendo anche di avere qualche chance in più di vittoria. E la sua controparte? Chi si preoccupa mai del portiere? Nessuno ci pensa mai, ma se riflettete un attimo, chi vorrebbe dover stare all’ombra dei “giganti” del suo tempo tutta la carriera, rischiando quasi sempre di essere rilegato ad un immeritato dimenticatoio?
Probabilmente, come direbbe Marco Ansaldo “I portieri sono gli eroi solitari. Quelli che non possono sbagliare. Là, abbandonati al proprio destino sotto gli occhi dello stadio”.
Sono quelli che omericamente parlando, hanno deciso di vivere una vita breve ma gloriosa (tranne poche eccezioni).
Il portiere potrebbe essere identificato come un altruista sognatore, disposto a sostenere il peso gravoso del ruolo che si è ritagliato lottando solo contro tutti. Ci deve per forza essere una lucida follia di chi, nel corso della sua vita, decida di vivere come un estremo difensore.

Solo i portieri sanno cosa significa davvero il profumo dell’erba. Gli altri calciatori non ne hanno idea. Perché loro sull’erba corrono, al massimo ogni tanto scivolano oppure, oggi, si rotolano un po’. Ma il portiere no. Il portiere ci lavora con l’erba. E praticamente ogni suo gesto, ogni suo intervento finisce sempre allo stesso modo, con il naso dentro l’erba. (Dino Zoff)
Sai che la tua attività sarà legata indissolubilmente ai risultati ottenuti e sarai giudicato solo in base a degli asfittici numeri. È una persona tremendamente normale il portiere. Sa benissimo che sarà molto difficile che gli venga riconosciuta la meritata gloria, semplicemente per il fatto che le sue parate, anche se decisive al fine del risultato, sono date per scontate, qualcosa considerato come fastidiosamente ordinario. Sai benissimo che la tua mansione si giocherà sul “filo del rasoio”, “camminerai sempre sul ciglio del burrone” perché, quello che la folla, accecata dalla passione, brama ardentemente, è un misero numero, che coincide con lo zero, nel tabellino marcatori avversario. A nessuno interessa degli immensi sacrifici fatti per arrivare lì, tra i grandi. Conta solo il tuo “riflesso” nel momento decisivo della partita.
Non ti è permesso sbagliare, mai. Un fardello notevole che probabilmente non tutti sono in grado di portare, costretto tra due pali e una rete sai che non potrai mai permetterti alcun calo di concentrazione, non un segno di cedimento, altrimenti l’infinita fatica che avrai fatto per ergerti su quel piedistallo, costruito con tenacia e sudore, verrà spazzato via in un tempo irrisorio.
Ogni tanto però il “mondo del pallone”, il “Dio del calcio”, chiamatelo come volete, nella sua sconfinata onniscienza, concede a qualche suo “dipendente” una sorta di aurea di imbattibilità. Coloro che possono beneficiare di questo breve ma intensissimo privilegio sono i soggetti più impensabili, quelli più “normali” come detto in precedenza, come se il destino gli avesse riservato un posto d’onore negli almanacchi della storia. Senza contare poi i mai banali contesti nei quali tutto ciò magistralmente si svolge.
Credete nelle coincidenze? Personalmente sono molto scettico, ma devo dire che in questo caso non so davvero cosa pensare.
La trama di questa inverosimile storia ruota attorno ad un gesto tecnico che con il calcio c’entra poco o nulla: la danza o il ballo che dir si voglia.
Il palcoscenico è comune ad entrambi i filoni narrativi, quale cornice migliore, per innalzare a leggende due giocatori se non la finale di Coppa dei Campioni? Per di più decise ai calci di rigore, il momento per antonomasia della verità per un portiere.
Se poi sottolineiamo come entrambi gli estremi difensori fossero poco più che ragazzi, tutti e due impegnati a difendere i pali del Liverpool e ambedue abbastanza pazzi da permettersi, davanti a migliaia di persone, una danza irrisoria sulla linea di porta davanti ai più grandi calciatori di quegli anni, ecco che gli ingredienti per entrare negli indimenticabili si manifestano con tutto il loro vigore.
“Il Ballo degli spaghetti”, fu così che il ventiseienne Bruce David Grobbelar ribattezzò quella buffa danza che eseguì nel 1984 durante la finale di Champions League di fronte alla Roma di Liedholm, all’Olimpico per giunta (mai banale il canovaccio calcistico).
Finale decisa ai calci di rigore. A difendere i pali dello squadrone inglese si presenta questo irriverente ragazzino Sud Africano che, durante i centoventi minuti di gioco, non aveva per nulla impressionato giocatori e tifosi.
La prima sequenza di rigori si concluse in parità, due a due. Prima di avvicinarsi alla porta per fronteggiare il terzo tiro Grobbelaar venne avvicinato da un compagno che, stremato dalla stanchezza per una partita drammatica e infinita diede il suo ultimo consiglio al compagno: “Ascolta, nessuno se la prenderà con te e se sbagliano sarai un eroe, cerca di fare qualcosa per fargli perdere la concentrazione”.
Fu in quel momento che si attivò il seme della follia insito, a mio parare, in tutti i portieri (in particolar modo a Grobbelaar).
Sorridendo in faccia a giocatori, tifosi e giornalisti, fregandosene altamente della posta in palio, sprezzante della tensione e del baratro sul quale stava camminando, raccolse l’invito del compagno e si affrettò a realizzare il suo consiglio nell’unico modo che gli fosse venuto in mente, ballando sulla linea di porta letteralmente come un matto. Inutile dire che il gesto inconsulto, di un folle, del tutto imprevisto, lasciò attoniti tutti, anche chi il rigore doveva ancora calciarlo.
Finale della partita Liverpool-Roma 4-2 dopo i calci di rigore.
Il nome di Bruce Grobbelaar per sempre scritto nelle pagine dello sport, indelebile e indimenticabile, colui che per una notte riuscì a prendersi gioco di milioni di appassionati avendo alla fine ragione contro tutto e tutti riuscì a legare indissolubilmente il suo nome alla finale di Coppa dei Campioni del 1984. Da portiere normale a eroe leggendario nell’arco di tempo di una manciata di minuti, il destino, quel giorno, scelse lui.
La storia potrebbe finire qui se non che, ventuno anni dopo, l’eredità del portiere di Durban venne raccolta da un collega, all’epoca ventiduenne e praticamente agli esordi nel grande calcio, Jerzy Dudek.
Stesso palcoscenico (finale di Champions League), stessa squadra (Liverpool) location diversa (Istanbul). Se fosse possibile questa storia ha ancora più dell’incredibile della sua omonima di due decenni prima.
Al minuto centoventotto del secondo tempo supplementare Dudek compii una doppia parata miracolosa sul centravanti avversario a meno di due metri dalla linea di porta. Se mai ci fosse stato un segnale del lucido momento di follia che si sarebbe consumato da li a poco, quasi tutti sarebbero concordi nel dire che è in quel momento che il destino scelse di spogliarsi delle sue vesti secolari e di diventare un comune mortale dalle sembianze umane e dal nome di “Jerzy Dudek”.
La storia si ripeté pressoché identica, come il più noioso ma al tempo stesso ineguagliabile dei remake. Così ricorda l’episodio il portiere
“Jamie Carragher venne da me appena prima dei rigori per esortarmi a fare qualcosa. ‘Inventati uno stratagemma, mettigli pressione, molta pressione, non so… come fece Grobbelaar, ricordi?’. Gli dissi ‘Ok, ma dammi un secondo per studiare i miei appunti sui rigori”.
Inutile dire che Dudek non studiò proprio nulla, semplicemente convinto del suo istinto decise di abbandonare se stesso ad una avventatezza disarmante ma, alla fine, vincente. Iniziò a ballare come un ossesso sulla linea di porta suscitando il terrore nei tiratori avversari e negli occhi sgranati dei tifosi. Solo il rumore del silenzio si poteva percepire in quegli istanti di voluta follia.
Finale della partita Liverpool-Milan 3-2 dopo i calci di rigore.
Dudek e Grobbelaar, due onesti sognatori che, baciati dal destino, riuscirono a far risplendere per sempre la loro stella nelle infinite sfaccettature di gloria appannaggio di questo incredibile sport.
Articolo di Mattia Catarina