Ad Ankara (capitale della Turchia), lo scorso 4 aprile, si sono incontrati i tre capi di Stato delle tre potenze regionali che stanno influenzando in maniera sostanziale gli sviluppi dell’infinita guerra civile siriana: Putin (Russia), Erdogan (Turchia), Rohani (Iran). La foto dei 3 leader ricorda vagamente un altro evento importante nella storia delle relazioni internazionali. L’incontro a 3, a Yalta, tra Roosevelt, Churchill e Stalin, durante l’ultimo capitolo della seconda guerra mondiale. Il paragone è ovviamente azzardato, tuttavia, esattamente come avvenne sulle rive del Mar Nero 73 anni fa, i tre protagonisti si stanno spartendo le zone di influenza, oggi definite in maniera più raffinata “zone di de-escalation”, in vista del termine del conflitto medio-orientale più sanguinoso da 7 anni a questa parte.

Lo storico incontro di Yalta tra Churchill, Roosevelt e Stalin
Cominciamo dall’inizio. Il presidente russo è arrivato in Turchia con un giorno di anticipo; la prima questione da gestire è il rapporto bilaterale con l’omologo turco e gli affari tra i due paesi euroasiatici. Sembrano ormai lontani i tempi in cui l’aviazione anatolica abbatteva senza esitazione un caccia russo nei cieli turco-siriani. Era il novembre 2015. Quel giorno le relazioni bilaterali tra i due paesi toccavano il loro punto più basso. Bisognerà attendere il noto golpe ai danni di Erdogan dell’estate successiva, nel luglio 2016, per far si che Putin alzi la cornetta del telefono per esprimere piena vicinanza e supporto al “Sultano” quasi-deposto. Da lì in poi le relazioni tra la “seconda” e la “terza” Roma sono state un continuo crescendo. Dai colloqui di Astana, vera conferenza di pace siriana rispetto ai più formali quanto improduttivi colloqui Onu di Ginevra dello stesso periodo, passando per gli accordi dello scorso dicembre sull’acquisto, per 2,5 miliardi di dollari, del sistema di difesa missilistica S-400 russo da parte di Ankara. Va ricordato che quest’ultima ha, in questa maniera, abiurato de facto all’Alleanza Atlantica, la Nato, di cui è storico membro dal 1952, nonché secondo esercito più imponente, secondo solo a quello Usa.
Questi affiatati rapporti tra le due potenze sono stati, tornando ai giorni nostri, consacrati dalla visita “anticipata” di Vladimir Putin lo scorso 3 aprile: insieme al suo nuovo alleato turco, lo “Zar” ha partecipato all’inaugurazione dell’inizio dei lavori della nuova centrale nucleare di Akkuyu, sulla costa mediterranea turca antistante l’isola di Cipro. La vera notizia è che la centrale, la cui entrata in funzione è prevista a partire dal 2023, è realizzata in tutte le sue fasi dalla compagnia energetica russa Rosatom. Una commessa da 20 miliardi di dollari. Si tratta della prima centrale nucleare turca, e della prima realizzata all’estero da un’impresa russa. Inoltre, la sua posizione geografica rappresenta la ciliegina sulla torta per Mosca: affacciata sul mare da essa più ambito, il Mediterraneo. E a meno di 200 km dalla base Nato di Incirlik, a due passi dai marines statunitensi, per dirla in breve.
Ma, parlando di questioni energetiche, non è finita qui: nello stesso giorno, il 3 aprile, i rispettivi ministri degli esteri e dell’energia dei due stati hanno discusso anche del gasdotto in progetto di nome “Turkish Stream”. Erdogan ha l’obiettivo di rendere il suo paese un hub energetico dall’Asia verso l’Europa, portando ad Ovest il gas russo, azero e turkmeno, per dirne solo 3 di cui si rifornisce l’Unione Europea. Putin, dal canto suo, è perennemente alla ricerca di vie alternative per il suo gas siberiano rispetto alla solita, ma sempre meno certa, Ucraina. Questi esempi rappresentano quanto oramai gli interessi della Sublime Porta e del Cremlino siano sempre più strettamente intrecciati.

La rete del gasdotto “Turkish Stream” (Fonte: Limes)
Ma veniamo all’incontro del 4 aprile. Qui gli interessi dei due attori sono contrapposti se si parla di Siria. Putin ed Erdogan sono infatti schierati su fronti opposti, con il primo assoluto sostenitore del governo di Damasco di Bashar Al-Asad. Il secondo è, fin dal 2011, invece, determinato a rovesciare il dittatore. Nonostante tali interessi siano contrapposti, essi possono essere comunque “congelati” per una serie di ragioni contingenti.
Il primo obiettivo di Erdogan è quello di evitare il crearsi di uno “stato cuscinetto” a guida e composizione curda immediatamente alle porte della Turchia. Esso rappresenterebbe una costante minaccia per la sicurezza esterna e soprattutto interna della potenza euroasiatica. La Turchia – come l’Impero Ottomano suo predecessore – è da sempre una realtà multi-nazionale. Tra le svariate minoranze che vivono nella penisola anatolica, quella curda è quella che fa più paura ai sogni “pan-turchi” del “Sultano” Erdogan. Tale minoranza ricorda vagamente quella armena che popolava l’oriente ottomano prima del suo sterminio (molti stati lo riconosco come “genocidio”) ad opera dei Giovani Turchi mentre l’Europa era impegnata con la Grande Guerra. Gli stessi curdi, oggi, controllano metà del territorio siriano, la parte nord-orientale, nota ai più con il nome di Rojava. Siccome stiamo però parlando di territori sui quali, almeno sulla carta – e per il diritto internazionale – si dovrebbe esercitare la sovranità di Damasco, e quindi il potere di Asad, ecco che entra in gioco Putin in questo “Grande Gioco” neo-ottomano. Se Erdogan vuole neutralizzare la minaccia curda, deve chiedere il permesso ad Asad, leggasi Putin.
In effetti, dopo lo spettacolare intervento a sorpresa in Siria delle forze armate eredi dell’Armata Rossa, durante il 2015, il governo legittimo siriano deve la sua permanenza in carica quasi esclusivamente a Mosca. Per questo è più realistico parlare di “dipendenza politica” di Asad nei confronti di Putin, piuttosto che di “alleanza” come i due continuano a fare. Altrimenti l’Operazione Ramoscello d’Ulivo, con la quale Ankara ha iniziato le operazioni militari anti-curde in Rojava, non sarebbe mai stata permessa da Damasco. Ma il veto-player in questo contesto è solo uno: Vladimir Putin.
E l’Iran cosa centra in tutto questo? Ci stavamo in effetti dimenticando del terzo convitato della “Yalta medio-orientale” andata in scena lo scorso mercoledì. Quali sono gli interessi della Repubblica Islamica nella guerra in Siria?
Il presidente iraniano Hassan Rohani, almeno stando alle sue dichiarazioni al margine del summit, sembra quello più interessato al tema della ricostruzione della Siria. Ed è da qui che passano gli interessi strategici di Teheran nel conflitto siriano, gli stessi fin dal 2011, quando i pasdaran della rivoluzione islamica, furono inviati fin da subito a dare supporto all’esercito di Damasco nella repressione delle prime rivolte avvenute nel quadro della cosiddetta “Primavera Araba”. L’obiettivo dei persiani è sempre stato lo stesso: garantire la sovranità e la permanenza in carica della famiglia Asad, sciita come Teheran (anche se di corrente alawita), di modo da costituire, consolidare e conservare la “Mezzaluna Sciita”, un asse geopolitico piuttosto omogeneo a livello religioso, comprendente gli Hezbollah libanesi, il governo iracheno di Bagdad, e lo stesso Asad. Dal Mar Mediterraneo al Golfo Persico. Tutto sotto la guida illuminata degli ayatollah iraniani. In sostanza, Rohani vuole rafforzarsi agli occhi della sua principale potenza regionale nemica, la sunnita Arabia Saudita. Le due potenze sono da anni protagoniste di una “guerra fredda” per procura che si combatte tra Riyad e Teheran in molteplici teatri operativi: Siria, Yemen e, da ultimo, la crisi diplomatica del Qatar.

Il Presidente iraniano Hassan Rouani
In tutto ciò, il principale vincitore de facto della guerra siriana, Vladimir Putin, che ci guadagna? Oltre ai miliardi sopra citati derivanti dagli affari con la Turchia, il Cremlino intende, con il suo ruolo di “paciere” nel conflitto civile in corso, consolidare il proprio protagonismo in Medio Oriente. In primis, da un punto di vista puramente politico, Putin può ritagliarsi la prestigiosa immagine di ri-fondatore della superpotenza russa, capace di decidere le sorti dell’area più “calda” dell’intero globo, proiettando la sua potenza oltre lo stretto dei Dardanelli, porta d’accesso del mare nostrum. Un bel dividendo politico, da riscuotere in termini di consenso elettorale in patria (si è visto alle presidenziali dello scorso marzo vinte con oltre il 75%). In termini più puramente strategici, la presenza militare russa nella regione è destinata a durare nel lungo periodo: la base navale di Tartus e quella aerea di Latakia si trovano affacciate direttamente sul Mar Mediterraneo. Ciò significa due cose: primo, la Russia è in prima fila di fronte alle recenti scoperte di giacimenti di gas nel Mar di Levante (il Mediterraneo orientale, per intenderci). E gli interessi energetici, come ben sappiamo, sono la raison d’etre della geopolitica russa. Secondo, il Cremlino si ritaglia in questa maniera, una sorta di “diversivo” strategico rispetto all’isolamento alla quale è costretta dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti. Diversivo che Putin sta già attuando, dal 2014, con la Cina di Xi Jinping. Dopo la caduta di Kiev, con la cacciata del fidato Yanukovyc alla guida del governo ucraino, la posizione di forza acquisita con il Donbass, la Crimea e la Siria, permette a Mosca di tamponare l’offensiva Nato nei suoi confronti, nonché di radicalizzarla da un punto di vista ideologico, andando a rifornire di nuova linfa la tanto utile quanto strumentale “russofobia” della quale vi ho parlato recentemente (Se Putin vince, deve solo ringraziare l’Occidente).
In sintesi, l’incontro a 3 di Ankara ci consegna un quadro molto chiaro di come stanno andando le cose in Siria: il vicinissimo Occidente ha pochissima voce in capitolo. Oltre alle tradizionali etnie dominanti regionali – arabi, turchi e persiani – e all’outsider russo, sembra che nessun altro sia in grado di influenzare in maniera netta il prossimo futuro in Medio Oriente. Quella che una volta era chiamata “Comunità Internazionale” è oramai estinta. Forse, nel mondo attuale, bisognerebbe piuttosto parlare di comunità al plurale. L’impotenza dell’Onu si è notata fortemente dall’assenza di reali passi in avanti nei colloqui di Ginevra promossi da Staffan de Mistura. Gli altri attori in gioco sembrano sempre più defilati. L’Arabia Saudita, dopo la fine territoriale della sua creatura, il sedicente Stato Islamico, sembra sempre più impegnata nelle questioni domestiche: il principe erede al trono Bin Salman sta facendo passi in avanti nel suo progressivo piano di riforme interne. La Cina resta ancora in disparte, onorando la sacra legge della “non ingerenza” negli affari altrui (a meno che non si parli di Africa). Ma tiene sempre alta la sua attenzione nella ragnatela siriana, dato che per quelle parti passano i suoi commerci ed investimenti della Nuova Via Della Seta. Il presidente statunitense Trump, dal canto suo, impegnato nel teatro del Pacifico, ha recentemente annunciato il progressivo ritiro delle circa 2000 unità a stelle e strisce presenti in territorio siriano. Ma bisognerà valutare quanto questo intento troverà il consenso di Pentagono e deep-state d’oltre-oceano, dolorose spine nel fianco della politica estera neo-isolazionista di The Donald. Infine, ci sono gli stati europei: i due principali protagonisti di quello che un tempo fu il trattato di Sykes-Pikot (accordo segreto di spartizione del Medio Oriente in sfere d’influenza del 1916), la Francia e la Gran Bretagna, sembrano essere fuori gioco, almeno per il momento. La prima si è “bruciata” con la forte opposizione mantenuta per troppi anni verso la permanenza in carica di Asad da parte del predecessore di Macron, Francois Hollande. E forse anche a causa dell’intervento da grandeur d’altri tempi in Libia spodestando Gheddafi, con il quale l’Eliseo si è facilmente auto-ricucito addosso la storica etichetta di “imperialista”, ricetta perfetta per farsi odiare dall’intero mondo arabo e non solo. Il Regno Unito invece sembra troppo impegnato nelle questioni interne e nei rapporti con l’Unione Europea a seguito della Brexit.
Per concludere, l’unica vera questione da porsi è se la strana “triplice alleanza” tra Ankara, Mosca e Teheran riuscirà a rimanere tale, nonostante i latenti interessi contrapposti che la contraddistinguono. I tre presidenti sembrano andare molto d’accordo per il momento. Ma si sa, come ci dimostra la storia ottocentesca europea, governare l’equilibrio di potenza è sempre un’operazione ad alto rischio, soprattutto in terre medio-orientali. Tutto può succedere.
Articolo di Luca Bianco