Nel nord della Siria, a 50 kilometri da Aleppo e soli 100 da Gaziantep, una delle città turche più grandi nel sud del paese, sorge Afrin, una piccola cittadina di 36562 abitanti. Collegata alla città turca dall’omonimo fiume, Afrin apparteneva alla provincia siriana dell’Impero Romano, base strategica da cui condurre le campagne contro l’Impero Armeno. Insediatisi nella cittadina nel diciottesimo secolo, i curdi ne costituiscono il 75% della popolazione, seguiti dal 25% di arabi.
Già parte della Repubblica Araba di Siria (SAR), Afrin è dal 2012 sotto il controllo dell’Unità di Protezione Popolare (YPG), milizia curda che dal 2004 è impegnata nella lotta accanto al Partito dell’Unione Democratica. Durante la guerra civile siriana, infatti, le forze del governo siriano si sono ritirate dalla città, lasciando spazio ai militanti della YPG. L’espansione della presenza curda, una delle principali minacce alla sicurezza avvertite dal governo turco di Recep Tayyip Erdogan, è alla base della recente scelta di quest’ultimo di muovere le proprie truppe oltre il confine meridionale, verso la cittadina di Afrin. La questione curda, nel caso specifico, va inserita nel più ampio contesto delle relazioni tra Ankara e Damasco. Nonostante i buoni rapporti tra le parti nei primi anni 2000, la scelta turca di dare ospitalità al Free Syrian Army (FSA) nell’ottobre 2011 e di condannare la reazione siriana alle proteste civili di quegli anni, hanno lentamente logorato le relazioni, portando Erdogan a contrastare appieno la presenza di Assad alla guida del vicino paese.
Per quanto quest’ultimo obiettivo sia di estrema importanza per il presidente turco, osteggiare la causa curda rimane lo scopo principale. Il confine tra i due paesi, infatti, è teatro dello scontro tra curdi e Stato Islamico, sostenuto implicitamente da Ankara. Nel contesto della guerra civile siriana, tra il maggio e il giugno 2015 le forze curde YPG, impegnate contro lo Stato Islamico, sono riuscite ad attaccare la cittadina di confine Tell Abyad, allontanando definitivamente gli islamisti. Sconfitta la cruda vendetta jihadista a Kobane, permessa anche dal governo turco, il YPG inizia ad essere sostenuto dall’esercito regolare siriano, mentre le truppe governative ottengono risultati di scarso successo. Nell’agosto 2016 le milizie curde, supportate dall’aviazione statunitense, strappano allo Stato Islamico la città di Manbij, secondo obiettivo turco dopo Afrin. In concomitanza con l’assedio di Aleppo, il governo Turco si impegna in territorio siriano con l’Operazione Scudo dell’Eufrate per rendere sicuro il confine tra Siria e Turchia e per contrastare le forze curde. Preceduta dall’Operazione Shah Eufrate (2015) e seguita dall’Operazione nel Governatorato di Idlib (2017-), l’Operazione del 2016 condivide con le ultime azioni turche in Siria lo scopo ultimo. Come nel 2016, l’obiettivo di Erdogan è strettamente securitario: fermare le organizzazioni terroristiche del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), dello YPG e di Daesh, inserite senza distinzioni in un unico calderone da Ankara, e impedire la formazione di un’entità statale curda a confine con la fascia meridionale del paese.
Il 20 gennaio, quindi, la Turchia ha dato avvio all’Operazione Ramoscello d’Ulivo, simbolo della cittadina di Afrin, con l’obiettivo di ripulire il cantone dal terrorismo. Convinta del diretto legame tra YPG e il PKK, Ankara da quel giorno si è impegnata in una cruda lotta contro la richiesta di autonomia del popolo curdo. Allontanandosi dagli Stati Uniti, che hanno sostenuto le istanze curde in precedenza, la Turchia ha progettato, anche per il futuro, una missione di “pulizia” della presenza curda, fino all’Iraq. Dopo aver catturato cinque villaggi già il 22 gennaio, sei giorni dopo Ankara ha inflitto ai curdi la prima grande sconfitta sul monte Barsaya. Il 19 febbraio, l’Agenzia di Stato Araba Siriana (SANA) ha annunciato l’ingresso delle milizie pro-Assad nel cantone, al fianco dello YPG. Nonostante i tentativi di raggiungere un accordo politico tra Ankara, Damasco e le forze curde, dopo due mesi di offensiva, il 18 marzo, l’esercito turco è entrato ad Afrin prendendo il totale controllo della città, con l’alleato Esercito libero siriano.
Le azioni militari turche hanno visto l’accerchiamento della città da parte dei combattenti delle milizie arabe già il 13 marzo e una serie di bombardamenti a grappolo turchi. Azioni rese possibili grazie all’implicito lasciapassare della Russia, la quale è in possesso del controllo dello spazio aereo del cantone. Non meno controverso è stato il ruolo di Washington, a favore dei curdi contro l’Isis ma silente in seguito alle azioni della Turchia, membro dell’Alleanza Atlantica i cui rapporti con gli Stati Uniti sono sempre più fragili. Mentre esponenti dell’opposizione siriana di Afrin, della comunità araba, dei curdi avversari della YPG e di altre minoranze, riuniti a Gaziantep hanno cercato di individuare il percorso futuro della cittadina di Afrin, Ankara festeggia i risultati ottenuti progettando la sua prossima offensiva, questa volta contro la cittadina di Manbij.
Principali vittime della sete assassina turca sono stati i civili. Oltre ai 1500 combattenti caduti dall’inizio delle operazioni a gennaio, 300 civili sono stati uccisi e circa 50000 persone sono state costrette a lasciare Afrin. I bombardamenti ininterrotti, la chiusura della diga di Maidanki, la conseguente sete, le torture, hanno rapidamente trasformato Afrin in un inferno. Lo Human Rights Watch (HRW) racconta le azioni delle guardie di confine, che da anni sparano, torturano e catturano i rifugiati che cercano di scappare verso la Turchia. L’intelligence turca, inoltre, impedisce ai curdi siriani, emigrati nel vicino paese anni prima, di fare ritorno nella propria casa. La situazione dei profughi che hanno dovuto abbandonare Afrin, a migliaia rifugiati tra Shirawa, Tel Rafat e Shaba è gravissima.
L’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani (SOHR) ha riportato una serie di bombardamenti da parte turca contro scuole e ospedali, l’uso di gas tossici e saccheggi di abitazioni, luoghi pubblici e privati da parte dei ribelli siriani, alleati turchi. Secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti dell’Uomo, nel 2017 è peggiorata la situazione dei diritti umani in Turchia.
Sono sempre di più le uccisioni, le torture e le violenze contro le donne, accompagnate dalla distruzione di beni culturali, quale il sito archeologico di Barad a 15 km da Afrin, raso al suolo per mano turca, ricalcando un modus operandi tipicamente islamista. Inoltre, il 18 marzo ZeroCalcare parlava di una “situazione disperata” e twittava contro chi, pur dovendo, non se ne sta occupando abbastanza, lasciando al popolo curdo il dovere di fare i conti con il proprio destino.
Dopo circa due settimane, la situazione ad Afrin non è cambiata ma la guerra si sta lentamente trasformando in guerriglia (ZeroCalcare). I Caschi Bianchi della Difesa Civile Siriana hanno ripreso la propria attività nel paese, interrotta nel 2012, con l’obiettivo di eliminare possibili resti di mine e bombe inesplose. Giovedì scorso, il presidente francese Macron ha incontrato alcuni esponenti dello YPG, dichiarando il proprio sostegno alla causa curda e la propria volontà di partecipare alla riabilitazione del nord della Siria, combattendo contro lo Stato Islamico. Macron ha anche assicurato l’invio di truppe francesi in Siria in supporto della coalizione guidata dagli Stati Uniti, per bloccare ulteriori avanzamenti della Turchia, che ha promesso di continuare la propria offensiva verso est. Il delegato siriano alle Nazioni Unite Bashar al-Ja’afari ha dichiarato al Consiglio di Sicurezza dell’ONU che la Siria è determinata a riconquistare i territori occupati, inclusi Afrin, Raqqa, Idlib e le Alture del Golan.
Mezzaluna Rossa è la più grande Organizzazione Non Governativa presente sul territorio che, fin da subito, ha attivato un conto corrente per inviare donazioni verso le zone del Kurdistan siriano coinvolte nell’azione turca e islamista. Una delle emergenze umanitarie più gravi degli ultimi decenni, quella che sta interessando Afrin e il confine turco-siriano, è una battaglia combattuta da pochi. Mentre l’occidente sta a guardare, l’umanità crolla al confine di un paese che conta ben 16 capitoli dell’acquis communitaire aperti su 35, nel contesto delle negoziazioni per entrare nell’Unione Europea ed è, dal 1952, a tutti gli effetti un membro NATO.
Il silenzio di una guerra che si consuma in lontananza ci obbliga a fare i conti con le responsabilità che si celano dietro una battaglia combattuta da innocenti. Nel tumulto della guerra e della violenza, storie, sogni, passioni e ideali si sono spenti ad Afrin, superando un confine invalicabile, dal quale nessuno sarebbe dovuto passare.
Articolo di Giorgia Miccoli
Illustrazione di Rachele Bocelli